Nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche, costituisce un comportamento di così elevato valore indiziario da potere, da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda

La vicenda

Nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica cd. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti acclarati o dati per esistenti, ma anche di accertare i fatti stessi.

Nei procedimenti in questione, tale mezzo istruttorio rappresenta, attesi i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sé suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari (cfr. Cass. n. 14462 del 2008)

Nei giudizi suddetti, peraltro, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di una relazione o di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269 c.c., comma 2, non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge(cfr. Cass. n. 3479 del 2016).

La pronuncia della Cassazione

Tali principi sono stati ribaditi dalla Prima Sezione Civile della Cassazione con la sentenza n. 16125/2019. La vicenda nasceva dal ricorso formulato dall’originario attore contro la pronuncia del Tribunale di Milano che aveva riconosciuto la sua paternità nei confronti di una minore.

Ed invero, il giudice di primo grado aveva considerato il suo ingiustificato rifiuto di sottoporsi al test del DNA quale unica è sufficiente fonte di prova per giungere alla propria decisione.

La stessa sentenza era stata confermata in appello ed infine, impugnata con ricorso per Cassazione. Ebbene i giudici Ermellini hanno ricordato l’ormai pacifico indirizzo della giurisprudenza secondo cui, nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche, costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da potere, da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.

Il rifiuto di sottoporsi al test del DNA

In altri termini, sebbene la volontà di sottoporsi al prelievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA non è coercibile, nulla tuttavia impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2 (cfr. Cass. n. 32308 del 2018).

Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), peraltro, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti.

Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. n. 11176 del 2017). In effetti, non è compito della Suprema Corte quello di condividere, o meno, la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice di merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008).

La redazione giuridica

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