I congiunti prossimi di un soggetto deceduto a causa di un illecito hanno diritto a ottenere il risarcimento, a titolo personale e non ereditario, del danno non patrimoniale subito per la perdita della persona cara 

Ormai da anni è pacificamente ammesso che i prossimi congiunti del soggetto deceduto a causa di un illecito (sia esso un sinistro stradale, come pure un’ipotesi di medical malpractice) abbiano diritto ad ottenere il risarcimento, a titolo personale (iure proprio) e non ereditario, del danno non patrimoniale subito per la perdita della persona cara (ormai definito, in giurisprudenza e dottrina, “danno da perdita del rapporto parentale”).
Il diritto al risarcimento di tale danno è stato definitivamente consacrato dalle note sentenze delle Sezioni Unite del novembre del 2008 (Cass. civ n. 26972 e seguenti), le quali, nel definire i criteri di selezione del danno non patrimoniale risarcibile, al fine di evitare che potessero essere ammesse a risarcimento offese di entità talmente esigua da non arrecare pregiudizio concreto alcuno, hanno individuato nella Costituzione il parametro di riferimento, ritenendo che siano risarcibili, ai sensi dell’art. 2059 c.c. (in collegamento, appunto, con la Costituzione), i danni che consistono nella lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti.
Tra questi, le stesse sentenze appena citate, hanno appunto menzionato il danno da perdita del congiunto, in quanto lesivo dell’interesse della persona, costituzionalmente protetto, dagli artt. 2, 29, e 30, posti a tutela della persona, sia nel proprio sviluppo che nell’estrinsecazione della sua personalità anche all’interno della famiglia (cfr. soprattutto Cass. civ. SS.UU, n. 26972/2008).
Così sinteticamente ricordato l’attuale fondamento giuridico del diritto al risarcimento dei congiunti nell’ipotesi di perdita di una persona cara in conseguenza dell’illecito da altri commesso, si è posto però il problema dell’individuazione dei criteri di quantificazione del relativo risarcimento.
In proposito, fermo restando che anche la liquidazione di tale danno, in quanto danno non patrimoniale e quindi del tutto svincolato dalla capacità reddituale del deceduto e della sua eventuale contribuzione (venuta a mancare, appunto, con la morte) economica nell’ambito della famiglia (questione diversa, che attiene al risarcimento dell’eventuale danno patrimoniale patito in conseguenza del decesso del congiunto), non può che avvenire in via equitativa, si è voluto evitare da un lato duplicazioni risarcitorie come avvertito già dalla citata Cass. 26972/2008, la quale ha chiarito come determini duplicazione di risarcimento “la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato”.
Dall’altro lato, come risulta dall’ultima parte del passaggio della sentenza appena riportato testualmente, è necessario anche che al danneggiato venga assicurata l’integralità del risarcimento del danno non patrimoniale subito.
Contemperare tali due esigenze, nella prospettiva del perseguimento del principio del risarcimento integrale, non è affatto semplice.
Basti pensare che, in epoca precedente alla nuova sistemazione giurisprudenziale, iniziata con le sentenze “gemelle” del 2003 e completata dalle sentenze a Sezioni Unite del 2008, quando il danno da morte del congiunto veniva risarcito, a titolo di danno morale ex art. 2059 c.c., in quanto conseguente ad un fatto reato (omicidio colposo, nell’ambito del tradizionale combinato disposto art. 185 codice penale/art. 2059 codice civile), esisteva una grande disparità, tra i vari tribunali italiani, nella monetizzazione del danno da perdita del congiunto: si poteva andare dai 200 milioni di lire riconosciuti ad ogni congiunto a Milano, ai 50 milioni di lire ottenibili a Palermo.
Negli anni successivi alle sentenze gemelle del 2003 sono state elaborate, ad opera dei due principali tribunali italiani, vale a dire quelli di Milano e Roma, delle “tabelle” per la liquidazione del danno da perdita parentale.
Nel presente scritto, che trae il suo spunto da una recente sentenza della Cassazione civile sull’argomento (Cass. civ., 25 novembre 2015, n. 24076), verranno analizzati solo i criteri elaborati al riguardo nella tabella milanese (che, peraltro, è quella che la stessa Cassazione ha ritenuto essere “a vocazione nazionale”, stante la sua notevole diffusione applicativa sul territorio), in quanto la sentenza è stata chiamata a decidere rispetto ad una fattispecie nella quale era stata fatta applicazione di tale tabella[1].
La caratteristica principale della tabella milanese per il risarcimento del danno da perdita parentale, così come ormai elaborata da anni (la sua versione originaria prevedeva infatti criteri diversi, che non è possibile in questa sede descrivere) è quella di prevedere un minimo ed un massimo della somma attribuibile ai congiunti, somma che varia in considerazione della relazione parentale del soggetto richiedente il risarcimento con quello deceduto.
Nell’ultima versione, nel caso i richiedenti il risarcimento siano i genitori, i figli, il coniuge (non separato) o il convivente della vittima, viene previsto un range che va da un minimo di euro 163.990,00 ad un massimo di euro 327.990,00); nel caso i richiedenti siano il fratello o il nonno della vittima, la forbice assume livelli più bassi, ricompresi tra un minimo di euro 24.000,00 circa ed un massimo di euro 142.000,00 circa.
Le tabelle in questione, pur in presenza di una “forbice” oggettivamente molto ampia, hanno fornito, nelle note esplicative che ne hanno accompagnato taluni aggiornamenti annuali, alcuni criteri a loro volta molto elastici finalizzati ad individuare la liquidazione meglio corrispondente alle peculiarità del caso concreto, tra i quali rientrano appunto le circostanze del caso concreto, tipizzabili  – ma solo in via esemplificativa e non tassativa – in particolare nella sopravvivenza o meno di altri congiunti, nella convivenza o meno di questi ultimi con il sopravvissuto, nella qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua, nella qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta (altri ne potrebbero venire in considerazione, ed essere valorizzati in causa dal richiedente il risarcimento, ad esempio la particolare sofferenza e penosità della situazione che ha condotto al decesso del congiunto ed al quale il parente abbia assistito; uno sconvolgimento – dimostrato – delle abitudini di vita quotidiane in conseguenza del decesso del congiunto, etc.).
In linea di massima, quindi, in caso di perdita del rapporto parentale, anche senza che il danneggiato provveda ad allegare o provare le circostanze concrete appena sopra riferite, i giudici tendono ad attribuire, a titolo risarcitorio, un importo pressochè corrispondente al minimo tabellare, in ragione del fatto che, pur rappresentando anche il danno da perdita del rapporto parentale un danno-conseguenza (e non un danno-evento, risarcibile per il solo fatto della lesione senza che vi sia prova alcuna che ad essa sia conseguito un evento di danno), la giurisprudenza delle stesse Sezioni Unite civili ha chiarito – come sopra ricordato – che tale prova può essere fornita anche in via presuntiva, non esistendo un criterio gerarchico nel sistema delle prove civili. Ciò significa che in linea generale può presumersi la sussistenza di una sofferenza notevole per la perdita di una persona cara, tale da legittimarla a richiedere il risarcimento, da riconoscere quanto meno nel “minimo tabellare” di cui si è detto. Sempre in linea generale, la parte danneggiante, potrebbe dimostrare che, nel caso concreto, la perdita del rapporto parentale non ha procurato alcuna lesione ai “diritti della famiglia” costituzionalmente protetti, dato che il congiunto richiedente il risarcimento non aveva, nei fatti, alcuna relazione affettiva con il congiunto deceduto (in questa prospettiva, ad esempio, è stato negato dal Tribunale, in un caso, il risarcimento ad un soggetto, per la morte del fratello, in ragione del fatto che i due fratelli vivevano da moltissimi anni addirittura in continenti diversi).
La sentenza n. 24076/2015 della Cassazione – seppur con motivazione stringata – fa applicazione dei principi sinora descritti e, una volta accertato che le parti (ed i giudici di merito) avevano ritenuto (peraltro correttamente) di compiere riferimento alle tabelle milanesi per la liquidazione del risarcimento del danno da morte del congiunto, ha rigettato il ricorso proposto dai congiunti di un soggetto deceduto a seguito di un incidente stradale, confermando la sentenza della Corte di appello, la quale aveva riconosciuto un risarcimento vicino ai minimi tabellari.
Secondo la Cassazione, infatti, la sentenza della Corte di appello era stata resa in conformità con i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza sull’argomento, in particolare nella parte in cui il giudice di secondo grado aveva precisato come “nella specie è difficilmente personalizzabile la liquidazione del danno per non avere i danneggiati argomentato in ordine alla peculiarità del loro rapporto con il defunto; per queste ragioni, in difetto di allegazione di specificità del danno patito, il giudice preannuncia di considerare importi prossimi ai minimi”; né, prosegue la Cassazione, i danneggiati hanno dedotto di aver in sede di merito addotto circostanze specifiche che potessero fondare una personalizzazione del danno, limitandosi ad invocare il danno non patrimoniale incommensurabile patito dai congiunti della vittima.
Come già detto, la decisione della Cassazione in commento è conforme alla giurisprudenza costante in materia, formatasi successivamente alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008, le quali, proprio in ragione del fatto che il danno non patrimoniale, anche quando consiste nella lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, rappresenta comunque un danno conseguenza che, come tale, deve essere “allegato e provato”.
Onere di allegazione ed onere della prova, ove assolti, consentono dunque ai congiunti di fornire al giudice gli elementi per la valorizzazione, in chiave risarcitoria, delle peculiarità del caso concreto, incrementando il danno rispetto ai minimi tabellari.
Sebbene non via sia dubbio che la sentenza in commento sia quindi corretta, questo non esime dal formulare qualche considerazione.
La prima riguarda una certa confusione – che emerge anche da questa sentenza – tra onere di allegazione e onere di prova: è noto infatti che allegare è meno che provare, nel senso che l’onere di allegazione è soddisfatto anche soltanto descrivendo una circostanza e prescindendo dalla prova effettiva della verificazione della stessa.
Non è però rispondente alla descritta impostazione giurisprudenziale uniforme affermare, come sembra fare Cass. 24076/2015, che ai fini dell’ottenimento della personalizzazione sia sufficiente “allegare” talune circostanze, in quanto il principio risultante da Cass.SS.UU. n. 26972/2008 è appunto che il danno deve essere “allegato e provato” (in tal senso, peraltro, già le sentenze gemelle 8827 8828 del 2003).
La seconda riflessione attiene al fatto che, indubbiamente, la prova delle circostanze richieste dalla giurisprudenza per poter ottenere l’adeguamento del risarcimento alle peculiarità del caso concreto è particolarmente difficile, in quanto avente ad oggetto fatti e comportamenti che, con elevato margine di attendibilità, possono essere conosciuti solo dai congiunti, vale a dire da quei soggetti che, essendo essi stessi parti del giudizio risarcitorio, non possono essere escussi come testimoni.
E’ allora evidente che, ad eccezione di casi particolari, la cui valutazione ed utilizzazione ai fini di un incremento risarcitorio rispetto ai minimi tabellari può essere effettuata dal giudice nell’ambito della discrezionalità che gli deriva dalla natura eminentemente equitativa del risarcimento del danno non patrimoniale, il rischio (o meglio la realtà delle cose) è che l’ammontare del risarcimento spettante ai congiunti per perdita del rapporto parentale si attesti pressochè automaticamente sul minimo tabellare.
Se ciò è, diversamente da quanto accade utilizzando come riferimento le tabelle romane per la liquidazione del risarcimento del danno da perdita di congiunti (le quali, senza entrare nello specifico, assegnano un valore monetario di base al punto ed attribuiscono poi a ciascun congiunto richiedente risarcimento una somma dipendente dal numero complessivo dei punti, calcolati con riferimento a criteri quale il rapporto di parentela, l’età della vittima, l’età del congiunto richiedente il risarcimento, la convivenza con il congiunto al momento del suo decesso, etc.), che consentono di pervenire solitamente a risarcimenti maggiori rispetto al minimo tabellare “milanese” (pur senza però poter raggiungere, per il loro meccanismo, il limite massimo – in concreto però mai riconosciuto dai giudici – previsto dalle tabelle milanesi), viene da chiedersi se sia congruo attribuire ad un soggetto che abbia perso un prossimo congiunto una somma che tendenzialmente viene a collocarsi ai minimi delle tabelle  milanesi (ammontante, con riferimento  alle tabelle 2014, ad euro 163.990), ad eccezione di alcuni casi limite, nei quali effettivamente la situazione concreta sia veramente particolare (viene fatto al riguardo in dottrina l’esempio, tratto dalla giurisprudenza, del risarcimento del danno da riconoscere alla mamma, vedova, che abbia perduto il figlio con il quale viveva, il quale costituiva il suo unico punto di riferimento affettivo e relazionale).
Ancora più chiaramente, è da considerare rispondente ad un criterio di equità, oltre che di rispetto del principio, sancito dalla Cassazione (ancora Cass. civ., SS.UU. n. 26972/2008), del diritto all’integrale risarcimento del danno, che ai genitori di un figlio prematuramente scomparso, che pure abbiano altri figli e che – come nella maggior parte dei casi – siano oggettivamente in difficoltà non nell’allegare, ma nel provare le peculiarità della sofferenza e degli sconvolgimenti patiti, venga nella stragrande maggioranza dei casi riconosciuta una somma pari ad euro 163.990,00?
Chi può dire che sia più giusto riconoscere tale importo e non, ad esempio, in via pressochè standardizzata, quello intermedio tra il minimo ed il massimo tabellare, salvo poi operare i correttivi adeguati, in melius o in peius, a seconda delle circostanze emerse poi in giudizio in base alle prove portate dalle parti?
E’ evidente che, come accade di frequente per le questioni che attengono alla responsabilità civile, e ai meccanismi di risarcimento del danno non patrimoniale in particolare, la questione diviene, come direbbero i giuristi anglosassoni, una questione di policy (potremmo dire di “politica del diritto”), vale a dire una questione la cui soluzione è inevitabilmente legata a problemi generali di sostenibilità sociale dei costi risarcitori e di trasferibilità del rischio risarcitorio attraverso lo strumento assicurativo (si pensi, al riguardo, alle motivazioni di carattere “solidaristico” e di sostenibilità del sistema dei premi assicurativi con le quali la Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 235 del 2014, ha ritenuto legittimo il limite posto dall’art. 139 Codice delle Assicurazioni alla “personalizzazione” del danno biologico di lieve entità in ambito di danni derivanti da circolazione stradale e connessa assicurazione obbligatoria).
Sono, quelle appena dette, esigenze da tenere presenti, in quanto strettamente connesse alla sostenibilità dell’intero sistema (ad esempio, di quello sanitario, pensando al campo della medical malpractice, ma il ragionamento è appunto il medesimo per la sostenibilità dei costi derivanti dai sinistri stradali e dalla connessa assicurazione obbligatoria per la r.c.a.), ma al tempo stesso esse non possono divenire un pretesto, seppur nobilmente giustificato, per privare la vittima del congruo ed integrale risarcimento del danno al quale ha legittimamente diritto.
Ciò significa, come evidenziato di recente da parte della giurisprudenza di Cassazione (si veda in proposito, di recente, Cass. civ., 20 agosto 2015, n. 16992), che la valutazione equitativa nella quale si traduce il risarcimento del danno non patrimoniale “è diretta a determinare la compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio, quella che l’ambiente sociale accetta come compensazione equa”  e che “per essere congruo, il ristoro deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile al’integrale risarcimento” (ancora Cass. civ. 16992/2015).
Nell’ottica della più avanzata tutela del danneggiato deve però ricordarsi come la Cassazione abbia più volte chiarito come il principio, pur affermato ripetutamente dalla stessa Cassazione, dell’integralità del risarcimento, non sia assistito da copertura costituzionale, con la conseguenza che rischia di cedere di fronte a scelte legislative che, motivate appunto da ragioni di “efficienza” del sistema complessivo dei risarcimenti e di prevedibilità dei loro importi, anche al fine di una miglior gestione assicurativa dei “sinistri”, impongano limiti al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione della salute (che, ricordiamoci, è senz’altro un diritto costituzionalmente garantito, anche ammesso che non lo sia quello all’integralità del risarcimento).
 
[1] La sentenza della Cassazione che ha riconosciuto la “vocazione nazionale” delle tabelle milanesi è Cass. civ., 7 giugno 2011, n. 12408).

Avv. Leonardo Bugiolacchi

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2 Commenti

  1. Errore umano: viene diagnosticato da due strutture ospedaliere un tumore di 4° livello tra il colon e vescica a Mio padre di anni 78, prima volta entrato in ospedale mai era stato prima x patologie (Brigadiere dei Carabinieri in pensione). Si procede x intervento stoma e pronto x centramento radioterapia. Dopo 12 gg da intervento esame istologico non conferma tumore ma infiammazione dovuta a retto colite ulcerosa…Mio padre muore x sepsi dopo 3 mese dall’intervento. Autopsia conferma errore umano.

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