La Cassazione ha fornito delle precisazioni in termini di risarcimento nei confronti del dipendente che cada in depressione per effetto di un demansionamento sul posto di lavoro.

Con la sentenza numero 6793/2018 del 19 marzo scorso, la Corte di Cassazione ha fornito importanti chiarimenti in merito a demansionamento e depressione.

Se infatti il demansionamento sul posto di lavoro conduce il lavoratore a una condizione di prostrazione tale da ridurlo in depressione, cosa accade in termini di risarcimento?

Per la Cassazione, le mansioni vanno valutate unilateralmente evitando atomizzazioni o parcellizzazioni.

Pertanto, se il demansionamento porta il dipendente alla depressione, nulla lo priva del risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.

In tema di demansionamento e depressione, i giudici hanno confermato la condanna di un’azienda per le conseguenze psicologiche cagionate a una dipendente.

L’azienda aveva infatti deciso di inquadrarla a un livello inferiore rispetto a quello che le sarebbe spettato in base alle mansioni complessivamente svolte.

Ebbene, con la sentenza in oggetto, la Corte di Cassazione ha specificato un punto importante.

Vale a dire che, nel giudizio condotto ai fini dell’articolo 2103 del codice civile, i compiti svolti dal lavoratore vanno valutati unitariamente.

Occorre, dunque, evitare “atomizzazioni o parcellizzazioni di singole funzioni”. Queste “isolatamente considerate, non farebbero mai emergere l’esatto tenore qualitativo d’una data posizione di lavoro”.

Ma non è tutto. Con tale pronuncia, i giudici hanno segnalato un ulteriore aspetto.

Bisogna infatti ribadire cosa debba intendersi per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, la cui sostituzione da parte di altro lavoratore avente una qualifica inferiore non attribuisce a quest’ultimo il diritto alla promozione.

Per la Corte, nello specifico, si deve fare riferimento soltanto al lavoratore che non è presente in azienda a causa di un’ipotesi di sospensione legale o convenzionale del rapporto di lavoro.

E non, invece, anche al lavoratore che è destinato a lavorare fuori dall’azienda o in un’altra unità o in un altro reparto in ragione di una scelta organizzativa del datore di lavoro.

 

 

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