Lo ha stabilito la Corte di Cassazione in relazione alla vicenda di una donna che aveva offeso ripetutamente l’ex marito nel corso di un esame dibattimentale

‘Malato mentale’, ‘drogato’, ‘alcolizzato’. Con questi epiteti un’imputata si era più volte riferita all’ex marito nel corso di un’udienza di fronte al Giudice di Pace. L’uomo, ritenendo offesa la sua reputazione, si era rivolto allo stesso Giudice di Pace che aveva condannato la donna per diffamazione. Ma il giudizio era stato ribaltato in appello perché secondo i giudici  ‘il fatto non costituisce reato’.

Di qui la decisione dell’uomo di ricorrere in Cassazione, in particolare contro la contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza di assoluzione che non aveva in alcun modo tenuto in considerazione le sue dichiarazioni, nonostante fossero state rese in presenza del difensore prima di iniziarne la verbalizzazione in forma riassuntiva.

Nello specifico, secondo i legali dell’ex marito non sarebbe stata corretta la decisione del Tribunale di ritenere inutilizzabili tali dichiarazioni, dal momento che “la sanzione dell’inutilizzabilità attiene alle prove acquisite nel corso di un processo e non ai verbali (atti pubblici) dai quali consti la commissione di reati”. Inoltre, la condotta della ex moglie non sarebbe stata in alcun modo giustificabile tanto che il giudice era stato costretto “ad invitarla ad uscire dall’aula, non riuscendo a contenerne le intemperanze”.

Da ultimo, il Tribunale avrebbe sbagliato nel ritenere insussistente l’elemento soggettivo del dolo, dal momento che “l’imputata era andata in escandescenze, aveva iniziato ad inveire contro il (…), aveva costretto il giudice a disporne il bonario allontanamento e aveva mostrato un coerente impeto offensivo esclamando ‘vergognatevi’ uscendo dall’aula”.

La Suprema Corte, tuttavia, non ha accolto le argomentazioni dell’uomo e con la sentenza n. 34793 del 10 agosto 2016 ha rigettato il relativo ricorso, ritenendolo infondato e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Gli Ermellini, infatti, hanno tenuto in considerazione la circostanza che le frasi offensive erano state pronunciate dalla donna “nell’ambito di un processo penale nel quale la suddetta ricorrente era imputata e l’ex coniuge era persona offesa”. Pertanto, secondo i giudici del Palazzaccio la condotta dell’imputata era stata posta in essere “in un’ottica prettamente difensiva” così come correttamente rilevato anche dal giudice di appello.

Inoltre, le frasi offensive erano state pronunciate nel corso di un esame dibattimentale in cui la donna aveva “perso il controllo nel rispondere alle domande su fatti oggetto del processo penale e riguardanti sempre i rapporti problematici con l’ex marito”, per cui secondo la Cassazione poteva trovare applicazione la causa di non punibilità prevista dall’art. 598 del codice penale.

Tale norma esclude infatti la punibilità “delle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie e amministrative” e, secondo gli Ermellini, è “funzionale al libero esercizio del diritto di difesa, che, come noto, è circoscritta all’ambito del giudizio ordinario ed amministrativo nel corso del quale le offese siano proferite, e a condizione che siano pertinenti all’oggetto della causa o del ricorso amministrativo”.

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