L’odierna sentenza della Corte di Cassazione,  focalizza il punto di interesse sulla problematica degli ambiti e dei limiti della rinnovazione probatoria d’appello, nel giudizio abbreviato richiesto “allo stato degli atti” e dunque, al di fuori di ogni integrazione probatoria. Problema, quest’ultimo, che a sua volta richiede una riflessione in tema di diritto alla prova.

Il sistema processuale italiano di stampo accusatorio ed elevato al rango costituzionale del “giusto processo”, ove ogni aspetto inerente alla tutela dei fondamentali diritti di difesa trova esplicazione e regolamentazione, si innesta in punta di piedi in uno dei settori più delicati del processo, la disciplina delle prove.

Fondamentale è il riconoscimento in capo alle parti del diritto a difendersi provando: diritto che non è solo ottenere l’ingresso della prova nel processo, sia essa introdotta dal giudice o dal pubblico ministero, ma anche diritto a difendersi “attivamente”, ogni qualvolta sia necessario che nuovo materiale conoscitivo abbia ingresso nel processo, per confutare l’ipotesi accusatoria e scongiurare ogni pericolo di errore giudiziario.

Esso si traduce in quanto stabilito dall’art. 190 c.p.p. Da una parte, il diritto di richiedere l’ammissione delle prove, espressione del potere dispositivo in capo alle parti, e correlato altresì all’onere di iniziativa circa l’acquisizione a processo delle prove stesse [fatte salve le ipotesi apparentemente eccezionali di iniziativa probatoria dell’organo giudicante (art. 507, 422 in udienza preliminare; nonché art. 195, co. 2, 210 co.1, 511 co. 1 c.p.p.)]; dall’altra parte, diritto all’ottenimento tempestivo della prova richiesta, nei limiti della valutazione del giudice secondo i criteri fissati dall’art. 190 c.p.p. (legalità, non manifesta infondatezza, rilevanza).

Ulteriore aspetto connesso al diritto alla prova, è il c.d. diritto alla controprova, di cui all’art. 111, co. 3 Cost. È forse questa l’espressione massima del diritto di difesa, quello cioè di ottenere l’ammissione delle prove a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico e del corrispondente diritto in capo all’organo requirente con riferimento alle prove a discarico (art. 495 co. 2 c.p.p; si veda anche CEDU art. 6, § 3, lett. d).

Ora, uno dei maggiori punti di criticità del nostro sistema processuale, si presenta, laddove si tratta di temperare il diritto alla prova così descritto, con le limitazioni strutturali e processuali del rito contratto per eccellenza: il c.d. giudizio abbreviato. Il giudizio abbreviato, nella sua natura di procedimento speciale, è anche solitamente noto come giudizio “anticipato”, rito “deflattivo”, rito “alternativo”, quasi a voler manifestare la sua natura “compromissoria” in materia di prova.

Se è vero, dunque, che dietro la scelta di tale procedimento speciale si cela sempre una precisa strategia difensiva, unita alle classiche finalità premiali e deflattive ad esso connaturate, è pur vero che la stessa si traduce immediatamente nella rinuncia esplicita all’ingresso nel processo, di materiale conoscitivo utile alla decisione finale. Questa si fonderà pertanto, sulle prove esistenti al momento in cui si è manifestata la scelta di procedere con il rito alternativo (prove esistenti “allo stato degli atti”), rinunciando così al “tradizionale” diritto alla prova.

Il problema della cristallizzazione delle prove esistenti “allo stato degli atti”, è un punto particolarmente complesso e molto spesso è stato oggetto di dibattito da parte di dottrina e giurisprudenza. Rilevante è l’orientamento dottrinale e, giurisprudenziale secondo cui l’imputato accedendo al rito abbreviato, non rinuncia alla prova ma rinuncia al dibattimento. In ogni caso, il fine ultimo del processo, pur se celabrato nelle forme del rito abbreviato deve, sempre e comunque, essere quello della ricerca di una possibile verità e non una «decisione correttamente presa in una contesa dialettica fra le parti». (SPANGHER).

In generale, in ambito processuale, si sente spesso parlare di “ragioni” e “finalità” di economia processuale, per descrivere la ratio di alcuni istituti (come quello quest’oggi in esame), oltre che per esprimere e delineare un’imprescindibile esigenza del sistema. La costante dimostrazione dello stato di crisi in cui versa la nostra giustizia penale, ha difatti reso l’economia processuale un’esigenza sempre più forte, al cospetto della sfiducia sempre maggiore della collettività, verso l’esercizio della funzione giurisdizionale.

In questo contesto, pare che l’economia processuale, “ideale” cui tendere con le massime forze, sia divenuta oggetto di interesse solo a causa della necessità di trovare un rimedio ad una situazione quanto mai urgente e al fine di porre un freno al diffuso senso di sfiducia nel sistema giudiziario attuale. Dimenticandosi, però, di tutte le incertezze, e ambiguità che circondano l’istituto.

Più propriamente, economia processuale dovrebbe tradursi in semplificazione, inteso come “risparmio” di atti e attività processuali non essenziali. Senza, tuttavia, perdere di vista il fine ultimo che non deve cambiare. Ci si chiede pertanto, come sia possibile contemperare il diritto alla prova con l’esigenza di economia processuale di alcuni istituti quali – nel caso di specie – il giudizio abbreviato. La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 49646/2015 affronta la questione attraversando l’iter logico che ha portato i Giudici di prime cure a non ammettere un mezzo di prova in una problematica molto singolare.

Ad originare la vicenda, l’imputazione e successiva condanna in primo grado, poi confermata in sede di Appello, di un uomo per i reati di violenza sessuale, circonvenzione e lesioni personali, ai danni di una donna che, trovandosi, presumibilmente, in uno stato di inferiorità psichica al momento del fatto, le aveva subite, pur non essendone consapevole.

L’imputato, giudicato secondo il rito alternativo abbreviato, portava dinanzi ai giudici della Suprema Corte di Cassazione, due motivi di doglianza; il primo, l’illegittimo diniego da parte dell’organo giudicante di merito della richiesta difensiva all’espletamento della perizia psichiatrica e, in secondo luogo, l’illogica motivazione da questi espletata.

Nella specie, si assumeva che la vittima, fosse stata circuita al momento del fatto. La stessa pareva, infatti soffrire di un disturbo psicotico di tipo schizoaffettivo, e disturbo borderline di personalità con sintomi psichiatrici di ordine sia affettivo che ideativo; ciononostante, il G.u.p. al momento della decisione, riteneva che simili patologie non potessero in alcun modo incidere sulla sua capacità di discernimento, volizione e/o autodeterminazione e pertanto, si diceva “pronto” a decidere allo stato degli atti.

Come noto, l’art. 438, comma 5 c.p.p., stabilisce che l’imputato può subordinare la richiesta di definizione del processo allo stato degli atti ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se la integrazione probatoria richiesta risulti necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili.

Si tratta, a ben vedere, di una questione di non semplice soluzione. Il tema stesso dell’accertamento dal punto di vista psicologico, circa il grado e la capacità di incidenza che un disturbo psichico possa aver avuto sulle capacità intellettive della donna, non è di poco conto! Di qui, poi la domanda necessaria e al tempo stesso doverosa, se l’organo giudicante, nonostante l’esigenza di coerenza rispetto alla scelta del rito semplificato, non abbia forse “violato” il diritto alla prova come poc’anzi descritto. Se è vero che il diritto a provare “attivamente” non conosce limitazioni o discriminazioni, tra i vari gradi di giudizio, come è possibile assicurare ciò, pur mantenendo fede alle limitazioni strutturali connaturate al rito speciale?

Ebbene, la Suprema Corte, investita della questione adotta una decisione coerente col dato letterale delle norme, inserito nella prassi giurisprudenziale, considerando che solo la mancata assunzione della prova decisiva può costituire motivo di ricorso in Cassazione e che, la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso ai sensi dell’art. 606 c.p.p. comma 1 lett. d) in quanto la perizia non assume i connotati di prova decisiva, facendo emergere la tanto disattesa neutralità dell’istituto.

Nella specie, affermavano i giudici della Corte che la formulazione, dopo il rinvio a giudizio, di una richiesta di rito abbreviato non condizionato o subordinato ad una diversa integrazione probatoria, rende tale richiesta tardiva per essere stata formulata oltre il termine di decadenza stabilito dall’art. 438 c.p.p., comma 2 (così Cass. Sez. 3 n.1851 del 2/12/2010; conf. Cass. Sez. 1 n.21219 del 27/4/2011; Cass.sez.2 n.139 del 28/9/2011).

Il ricorrente avrebbe, quindi, potuto rinnovare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta di rito abbreviato subordinato ad integrazione probatoria (negli stessi termini formulati davanti al G.u.p.). Facendo, invece, richiesta al G.u.p. di rito abbreviato ordinario, implicitamente rinunciava alla integrazione probatoria. Conseguentemente non poteva più richiedere al giudice di appello di valutare la correttezza della decisione del G.u.p. in ordine alla ritenuta insussistenza dei presupposti per far luogo alla integrazione probatoria richiesta.

Secondo giurisprudenza costante (cfr. Cass. pen. sez. 1 n. 36214 del 22/09/2010 – Iodice), invero, la scelta, da parte dell’imputato, del giudizio abbreviato nella forma ordinaria comporta “…una rinuncia implicita all’assunzione delle prove avanzate che avrebbe potuto chiedere di sfogare in sede dibattimentale senza per questo rinunciare alla diminuente del rito ottenibile al giudice della cognizione qualora la decisione si fosse poi fondata proprio sulle prove pretermesse”.

Del resto le Sezioni Unite, già con la sentenza n. 44711 del 27 ottobre 2004, avevano chiarito che poteva parlarsi “di violazione dei criteri legali di quantificazione della pena solo quando la preclusione del rito fosse dipesa dall’erronea deliberazione del giudice e non dall’inerzia del soggetto cui la legge rimette in via esclusiva la possibilità di attivare il procedimento speciale, cosicché, nel caso in cui l’imputato non rinnova in limine litis una richiesta già respinta dal giudice preliminare, non può farsi più questione della eventuale erroneità del provvedimento reiettivo”.

A tale mancato rinnovo della richiesta deve equipararsi la “opzione” per il rito abbreviato secco, con rinuncia quindi a quello condizionato. In presenza di tale scelta non può più l’imputato lamentare l’illegittimo rigetto della richiesta di integrazione probatoria (Cass., Sez. 3,5 giugno 2009, n. 27183, Fabbricinijk, Rv. 244248). Il ricorrente, quindi, in sede di giudizio d’appello, non poteva più censurare la decisione del G.u.p., ma solo limitarsi a richiedere la rinnovazione parziale del dibattimento, sollecitando i poteri officiosi della Corte.

È pacifico, infatti, che “nel processo celebrato con il rito abbreviato, l’imputato rinunzia definitivamente al diritto di assumere prove diverse da quelle già acquisite agli atti o richieste come condizione a cui subordinare il giudizio allo stato degli atti ai sensi dell’art.438 comma 5 c.p.p.. I poteri del giudice di assumere gli elementi necessari ai fini della decisione (art.411 comma 5 c.p.p.), di disporre in appello la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (art.603 comma 3 c.p.p.) sono poteri officiosi, che prescindono dall’iniziativa dell’imputato, non presuppongono una facoltà processuale di quest’ultimo e vanno esercitati solo quando emerga un’assoluta esigenza probatoria” (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 12853 del 13/02/2003).

Quanto, poi, in riferimento alla mancata perizia psichica sulla donna, la Corte chiarisce che “per l’accertamento della deficienza psichica cui si riferisce l’art.643 cod. pen., non occorre certo una indagine psichiatrica, non essendo richiesto uno stato di piena incapacità o di infermità psichica del soggetto passivo (sez. 5, n.2237 del 27/10/1978). Di modo che la prova della condotta induttiva può essere tratta anche da elementi indiziari e prove logiche, avendo riguardo alla natura dell’atto, all’oggettivo pregiudizio da esso derivante e ad ogni altro accadimento connesso al suo compimento (Sez. 2 n.6078 del 09/01/2009)”.

Avv. Sabrina Caporale

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Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 14 ottobre – 17 dicembre 2015

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