Il divieto di avvicinamento alla persona offesa non ha affatto un contenuto generico o indeterminato, perché rimanda ad un comportamento specifico, chiaramente individuabile: (…) insomma, di non fare tutto ciò che lo “stalker” è solito fare e che i soggetti appartenenti alla detta categoria comprendono benissimo

Il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Treviso, con ordinanza confermata dal Tribunale del riesame di Venezia, aveva applicato ad un soggetto indagato per il reato di atti persecutori, lesioni personali e violazione di domicilio, la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.

Tale decisione era stata giustificata dalla presenza di un quadro di gravità indiziaria inequivocabile. La stessa vittima aveva dichiarato di essere stata oggetto di una serie continuativa di atti molesti, costituiti da messaggi, telefonate ingiuriose e minacciose, di pedinamenti e appostamenti, oltre che di un atto di violenza fisica da parte del suo aggressore. Anche i testimoni ascoltati, avevano confermato di essere stati spettatori della selvaggia aggressione subita dalla vittima.

Il ricorso per Cassazione

Avverso tale provvedimento, l’uomo proponeva, per il tramite del proprio difensore, ricorso per Cassazione, denunciando, tra gli altri, l’assenza del fumus commissi delicti in ordine alla necessità di disporre la misura cautelare restrittiva della sua libertà personale.

Sul punto si sono espressi i giudici della Suprema Corte.

Il motivo di ricorso è infondato – affermano.

Senza dubbio, il reato contestato nell’imputazione (di atti persecutori di cui all’art. 612-bis) era integrato da una serie ripetuta di atti minacciosi o molesti che avevano comportato nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero avevano ingenerato un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva e l’avevano costretta, perciò, ad alterare le proprie abitudini di vita.

Tali circostanze, come emerso anche dalle dichiarazioni della donna, attentamente valutate, oltre a quelle dei numerosi testi che assistettero all’episodio di selvaggia aggressione subito dalla vittima, erano ben note all’uomo, che perciò doveva dirsi pienamente consapevole di tutti gli elementi che connotato l’ipotesi delittuosa contestata (sia il grave stato di ansia e di paura, sia il mutamento delle abitudini di vita e così via).

Poco importa, dunque, come sostiene il ricorrente che, in relazione all’episodio dell’aggressione, la donna non avesse sporto querela, giacché – aggiungono gli Ermellini – nel fuoco dell’indagine giudiziale sono entrati comportamenti durati mesi e idonei, da soli, a integrare l’elemento oggettivo del reato.

La misura cautela del divieto di avvicinamento

Sul punto il discorso si fa più complesso.

Ebbene, il Supremo collegio ha parzialmente accolto il motivo di gravame dal ricorrente.

Com’è noto, l’art. 282-ter cod. proc. pen. – introdotto dal D. L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con mod., dalla legge 23 aprile 2009, n. 38 – ha tipizzato una nuova figura di misura cautelare al fine di contrastare, prevalentemente, il fenomeno degli atti persecutori, costituito dal divieto di avvicinamento dell’imputato o dell’indagato “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”, nonché dall’imposizione dell’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa”.

È vivo nella giurisprudenza di legittimità – ma non contraddittorio – il dibattito sui caratteri che devono avere le misure suddette, affinché le esigenze di cautela sottese alla norma siano conciliabili con i diritti e le necessità della persona cui le misure sono imposte, sotto un duplice profilo: a) quello di determinare una compressione della libertà di movimento dell’onerato nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima; b) quella di assicurare una sufficiente determinatezza della misura, affinché sia ben chiaro all’obbligato quali comportamenti deve tenere e sia eseguibile il controllo sulla corretta osservanza delle prescrizioni a lui imposte.

È compito del giudice, pertanto, riempire la misura di contenuti adeguati agli obiettivi da raggiungere e rendere la misura sufficientemente determinata, per evitare elusioni o problematiche applicative.
Ebbene, l’art. 282-ter prevede – innanzitutto – il divieto di avvicinamento “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa” e l’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi”, al fine – evidente – di assicurare alla vittima uno spazio fisico libero dalla presenza del soggetto che si è reso autore di reati in suo danno.

La norma ricalca l’analoga previsione contenuta nell’art. 282-bis cod. proc. pen., introdotto per analoghe ragioni, dalla legge 4 aprile 2001, n. 154, secondo cui il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può ordinare all’imputato o all’indagato, oltre che di lasciare immediatamente la casa familiare, “di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti”.

In entrambe le disposizioni è contenuta, quindi, l’avvertenza di riempire la prescrizione di un contenuto specifico: quello della individuazione (“determinazione”) del luogo a cui l’autore del reato non si deve avvicinare.

Tale previsione corrisponde a una esigenza pratica e una esigenza di giustizia: l’esigenza pratica è quella di rendere noto all’obbligato quali sono i luoghi da evitare, alla cui determinatezza è collegata la stessa praticabilità della misura; l’esigenza di giustizia è quella di contenere le limitazioni imposte all’indagato nei limiti strettamente necessari alla tutela della vittima e di assicurare a quest’ultima la certezza di uno spazio libero dalla presenza del prevenuto.

A questa categoria è da ascrivere – ad avviso del Collegio – anche il divieto “di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa”, sia perché l’obbligato non può sapere quali siano i luoghi suddetti – peraltro normalmente destinati a variare a seconda delle esigenze e delle abitudini della persona – sia perché la misura assumerebbe una elasticità dipendente dalle decisioni (o anche dal capriccio) dell’offeso, a cui verrebbe rimesso, sostanzialmente, di stabilire il contenuto della misura.

Come è stato, infatti, rilevato l’art. 282-ter cod. proc. pen. è stato introdotto contestualmente alla previsione del reato di “atti persecutori”, di cui all’art. 612-bis cod. pen., che ha tra le sue manifestazioni tipiche il costante pedinamento della vittima, da parte del soggetto agente, anche in luoghi nei quali la prima si trovi occasionalmente, e l’espressione di atteggiamenti intimidatori o molesti anche in assenza di contatto fisico diretto con la persona offesa e purtuttavia dalla stessa percepibili.

Proprio per ovviare a questo tipo di “persecuzione” sono state previste, dal legislatore, le particolari misure del divieto di “avvicinamento” alla persona offesa, nonché quello di mantenere una determinata distanza dalla persona suddetta e il divieto di comunicazione.

La norma viene incontro all’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita lavorativa e sociale in condizioni di serenità e di sicurezza, anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria slegata da particolari ambiti territoriali; con la conseguenza che è rispetto a tale esigenza che deve modellarsi il contenuto concreto di una misura la quale, non lo si dimentichi, ha comunque natura inevitabilmente coercitiva rispetto a libertà anche fondamentali dell’indagato (in questo senso si è già espressa la sez. quinta di questa Corte, con le sentenze nn. 13568 del 16/1/2012; n. 36887 del 16/1/2013; n. 19552 del 26/3/2013).

Il contenuto “specifico” del divieto di avvicinamento

Peraltro, il divieto di avvicinamento alla persona offesa non ha affatto un contenuto generico o indeterminato, perché rimanda a un comportamento specifico, chiaramente individuabile: quello di non ricercare contatti, di qualsiasi natura, con la persona offesa; e quindi di non avvicinarsi fisicamente alla persona suddetta, di non rivolgersi a lei con la parola o con lo scritto, di non telefonarle, di non inviarle SMS, di non guardarla (quando lo sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d’animo): insomma, di non fare tutto ciò che lo “stalker” è solito fare e che i soggetti appartenenti alla detta categoria comprendono benissimo.

Cosicché nel caso in esame, l’ordinanza che prescriveva a carico dell’indagato il solo divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima doveva ritenersi eccessivamente generica e perciò doveva essere annullata con rinvio per nuovo esame.

La redazione giuridica

 

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