Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sè, non costituiscono reato, quali ad esempio la privazione della possibilità di esercitare il ruolo di genitori

Lavicenda

Nell’anno 2017 la Corte di Assise di appello di Reggio Calabria, aveva confermato le pronunzie emesse in primo grado a carico di sei imputati, tutti accusati dei delitti di maltrattamenti in famiglia e sequestro di persona, aggravati D.L. 13 maggio 1991, n. 152, ex art. 7 conv. con mod. nella L. 12 luglio 1991, n. 203, sotto il profilo del metodo mafioso.

Secondo l’impostazione accusatoria recepita dai giudici di merito, i fatti oggetto di imputazione erano maturati in ambito familiare allorchè, dopo il suicidio del marito della vittima, i familiari di quest’ultimo – precisamente i suoceri ed i cognati – avevano posto in essere nei confronti della vedova (che abitava, con le sue tre bambine, in un appartamento allocato nella palazzina dove dimoravano anche tutti gli imputati) condotte vessatorie e mortificanti rispetto alla sua libertà di autodeterminazione ed all’esercizio della potestà genitoriale sulle figlie, oltre che vere e proprie limitazioni della sua libertà personale.

La donna era stata più volte minacciata (sia di conseguenze per l’incolumità propria e della famiglia di origine, sia di vedersi sottratte le bambine) e costretta a compiere atti di disposizione patrimoniale, le era stato, inoltre, impedito di optare liberamente per il medico che avrebbe dovuto curarla, di scegliere il vestiario da indossare, di uscire di casa da sola, financo per recarsi all’edicola che era nei pressi dell’abitazione e di adoperare la propria autovettura.

Le era stato anche fisicamente impedito di fuoriuscire dal portone di ingresso della palazzina, alla quale era stata cambiata la serratura senza fornirle le nuove chiavi; le era stata inoltre, assegnata una sorta di scorta per ogni sortita fuori dall’abitazione che fosse necessaria, scorta senza la quale non le era permesso allontanarsi.

Ma ciò che era ancor più grave è che era stata privata della possibilità di svolgere la propria funzione di madre, impedendole di accompagnare le proprie figlie a scuola, di scegliere il loro vestiario, il corredo scolastico o di disporre delle loro cure.

Il giudizio di legittimità

Ebbene, i giudici della Suprema Corte di Cassazione (Sezione Quinta n. 21133/2019) hanno confermato la decisione della corte territoriale anche in ordine alla asserita configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p.

“Il reato – hanno chiarito – consiste, infatti, nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, condizioni correttamente ricondotte allo stato in cui versava la persona offesa”.

Al riguardo, la più recente giurisprudenza di legittimità ha aggiunto che il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui al familiare venga improvvisamente riservato un trattamento sistematicamente e immotivatamente deteriore rispetto a quello in precedenza ordinariamente riservatogli, ove ciò renda manifesta l’esistenza di un programma criminoso animato da una volontà unitaria di vessare, fisicamente, ed anche psicologicamente, il soggetto passivo (Sez. 2, n. 10994 del 06/12/2012); e che in via generale, esso può essere integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sè, non costituiscono reato” (Sez. 6, n. 13422 del 10/03/2016; Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013).

La redazione giuridica

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