Una donna si ricovera presso una struttura sanitaria per una interruzione volontaria della gravidanza alla 16° settimana per una diagnosi di grave malformazione fetale…

La Corte di Cassazione, Sezione IV penale, con la sentenza n. 21868 depositata il 17 maggio 2018 ha affermato, decidendo su una vicenda particolarmente complessa (caso di malformazione fetale), che non rispondono penalmente i sanitari che abbiano agito seguendo un certo protocollo e un proprio convincimento sulle condizioni di un paziente, anche nel caso in cui quest’ultimo, una volta dimesso dalla struttura sanitaria, non abbia risolto i problemi accusati al momento del ricovero.

I fatti.

Una donna si ricovera presso una struttura sanitaria per una interruzione volontaria della gravidanza alla 16° settimana per una diagnosi di grave malformazione fetale. L’intervento viene praticato in via farmacologica. Dopo essere stata sottoposta a due ecografie per accertare la presenza eventuale di materiale deciduo-coriale o di coaguli, veniva dimessa con la prescrizione di un farmaco antiemorragico e relativa posologia e modalità di assunzione.

Nei giorni successivi all’intervento la paziente presenta perdite ematiche in progressiva attenuazione, finché non se ne verifica una rilevante con dolori, espulsione di coaguli e lipotimia. La ginecologa della donna consiglia l’assunzione dello stesso antiemorragico prescritto nelle struttura sanitaria, però l’emorragia peggiora e chiamato il 118 la donna viene trasportata al pronto soccorso dell’ospedale dove al triage le assegnano il codice verde.

Il medico di turno compie gli esami di routine, somministra soluzione fisiologica e invia la paziente alla consulenza ginecologica, dove le viene effettuata un’ecografia transvaginale, che evidenzia la presenza perdite ematiche frammiste a coaguli.

Tornata al Pronto soccorso, la paziente viene monitorata e poi dimessa con la prescrizione di un nuovo emocromo per il lunedì successivo.

Successivamente a seguito di una nuova perdita emorragica e una contestuale lipotimia, avvenuta nel bagno dell’ospedale, la paziente viene ricondotta al Pronto soccorso dove vengono rinnovate le analisi, e veniva sottoposta a nuovo monitoraggio e poi dimessa.

La donna rientra dopo aver cenato col marito in un fast food, e non assume il farmaco che le era stato prescritto. Durante la notte si ripresentano rilevanti perdite ematiche e, cadendo nel bagno della sua abitazione urta il viso contro il bordo della lavatrice e si procura la frattura di un dente.

Nuovamente trasportata di nuovo al Pronto soccorso, questa volta in codice giallo, viene sottoposta di nuovo a esami e visite ginecologiche, gli vengono somministrati  soluzione fisiologica e il farmaco che le era stato prescritto intramuscolo e l’esame del ginecologo rileva la presenza di abbondanti perdite ematiche in atto.

La cooperazione multidisciplinare fra diversi medici

 La Corte di Cassazione ha sottolineato che di fatto entrambi i sanitari avevano agito secondo un protocollo preciso, ovvero la paziente era stata dimessa quando effettivamente era in condizione per poter fare ritorno a casa.

Gli Ermellini hanno inoltre osservato come nel caso di cooperazione multidisciplinare fra diversi medici ognuno di loro è tenuto sia a rispettare i canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, sia all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune unico.

Ma il sanitario può ignorare l’attività precedente e contestuale svolta da altro collega?

Assolutamente no, in quanto, anche se l’altro collega è uno specialista in altra disciplina è comunque tenuto a controllare la correttezza, ed anche a porre rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.

Secondo i giudici di merito di primo e secondo grado, sussiste una condotta colposa “gravissima” per non aver riconosciuto il materiale deciduo-coriale e per non aver effettuato revisione strumentale della cavità o almeno una diagnosi differenziale, ma aver mantenuto la posizione diagnostica iniziale, anche dopo il secondo episodio emorragico: i giudici ritengono quindi che i sanitari abbiano omesso per imperizia e imprudenza una nuova autonoma valutazione della paziente dopo il secondo episodio emorragico.

Differente è però il parere degli Ermellini che ritengono che i giudici di merito non hanno tenuto conto di come la vicenda poteva avere esito differente se la donna una volta dimessa avesse assunto prontamente i medicinali che le erano stati prescritti.

Per i Supremi giudici non è sufficiente l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui ‘con certezza’  il medico doveva ‘già all’esame ecografico accorgersi di dati sintomatici e oggettivi’, ma che ‘senza ombra di dubbio, tale diagnosi differenziale doveva essere effettuata all’esito dell’ulteriore episodio di metrorragia con lipotimia verificatosi dopo le formali (non reali) dimissioni’ e la colpa debba ravvisarsi, rispetto a siffatta ultima circostanza nella pervicacia nell’escludere – sbagliando clamorosamente – ‘la possibilità che i sintomi manifestati dalla paziente fossero connessi alla presenza di materiale deciduo-coriale’.

La Corte di Cassazione ritiene tali affermazioni apodittiche poiché “non tengono in  considerazione  la situazione  rappresentabile  ex  ante,  a  fronte  di   un’ecografia   ritenuta   negativa … e  che  non  esaminano l’eventuale  correttezza  della  terapia  consigliata  e   peraltro   immediatamente praticata all’ingresso in ospedale il giorno successivo,  quando  la  donna venne sottoposta   all’intervento   chirurgico.   Non   solo,   ma   che   non   spiegano   perché a fronte del manifestarsi degli stessi sintomi già valutati, in assenza della somministrazione dei farmaci prescritti, l’unica strada praticabile fosse quella della revisione cavitaria”.

Per la Cassazione la Corte territoriale non ha affatto fornito risposta al quesito cruciale di tutta la vicenda, inerente  il giudizio controfattuale, ossia, l’efficacia della tempestiva assunzione del farmaco, nella posologia indicata, ai fini della ricostruzione del nesso causale fra le condotte dei sanitari e l’evento.

La Corte d’Appello infatti, si è limitata ad attribuire ai medici la responsabilità della mancata assunzione ospedaliera del farmaco prima delle dimissioni, e ha ritenuto che l’unica alternativa fosse trattenere la paziente in ospedale.

Per gli Ermellini in questo caso non può parlarsi di certezza della responsabilità, in quanto la colpa può essere solo probabile. Di qui la decisione di non ritenere sussistente la penale responsabilità dei sanitari, anche in virtù della intervenuta prescrizione dei reati.

Sarà quindi onere dei giudici civili, secondo la Cassazione, quella di riesaminare la vicenda e stabilire se sussista una qualsivoglia responsabilità dei sanitari sotto un diverso profilo, ai fini dell’eventuale risarcimento dei danni.

Avv. Maria Teresa De Luca

 

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