Ricorso improcedibile per mancata comparizione del difensore alle due udienze fissate a norma dell’art. 348 c.p.c., comma 2: presunto caso di “ingiusto” processo?
La vicenda
Nel 2017 la Corte d’appello di Roma aveva dichiarato improcedibile l’appello proposto dalla parte soccombente nel giudizio di primo grado, per mancata comparizione del proprio difensore alle due udienze fissate ai sensi dell’art. 348 c.p.c., comma 2.
Il ricorso per Cassazione
Con un primo motivo di impugnazione il ricorrente denunciava la nullità della citata sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2.
A tal proposito, aveva invocato anche l’art. 111 Cost.
Ed infatti, in forza di una corretta interpretazione del principio costituzionale del “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost., non sarebbe “giusto” qualunque processo che si limiti ad essere formalmente regolare: “giusto processo” è invece, una formula cui è assegnato “il significato pratico di processo coerente con quei valori di civiltà giuridica, che in un determinato contesto storico sono espressi o condivisi dalla collettività, id est dal popolo in nome del quale la giustizia viene amministrata ai sensi dell’art. 101 Cost., comma 1”.
In quest’ottica, l’applicazione meccanica e immediata dell’improcedibilità a norma dell’art. 348 c.p.c., comma 2, si tradurrebbe – a detta del ricorrente – in “una falsa e strumentale applicazione della norma che lede i più elementari principi costituzionali”. Ciò per tre ordini di ragioni.
La prima deriva da un principio cardine del processo civile per cui: non può esservi nullità di un atto processuale se questo ha raggiunto il suo scopo.
La “seconda ragione” risiederebbe nel fatto che le norme processuali dovrebbero comunque essere interpretate nel senso di far raggiungere una decisione in merito: ciò perché “costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo” (S.U. 12 dicembre 2014 n. 26242).
La “terza ragione” consiste, invece, nel fatto che il diritto processuale (come anche quello sostanziale) deve “essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario”.
Ebbene, l’art. 6 CEDU sancisce il principio della effettività della tutela giurisdizionale; nell’interpretazione di quest’ultima norma, la Corte di Strasburgo “ha ripetutamente affermato che il principio di effettività della tutela giurisdizionale va inteso quale esigenza che la domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito“, evitandosi quindi gli eccessi di formalismo, con particolare riferimento all’ammissibilità e alla ricevibilità dei ricorsi.
Ma è proprio così?
I giudici della Cassazione non sono d’accordo e pertanto, hanno respinto il ricorso per i motivi che seguono.
Una prima preliminare precisazione viene fatta in relazione all’ all’applicazione dell’art. 348 c.p.c., che disciplina appunto l’improcedibilità dell’appello ed in particolare, il comma 2 secondo il quale “Se l’appellante non compare alla prima udienza, benché si sia anteriormente costituito, il collegio, con ordinanza non impugnabile, rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’appellante. Se anche alla nuova udienza all’appellante non compare, l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio”.
Ebbene, nel ricorso proposto dall’originario attore si leggeva: “Il difensore dell’odierno ricorrente non si è presentato alla prima udienza per un disguido col suo sostituto e non ricevendo l’avviso ex art. 348 c.p.c., comma 2, non si è presentato nemmeno alla seconda udienza fissata a breve scadenza dalla prima, pervenendo così il processo all’applicazione automatica dell’improcedibilità dell’appello”.
Per la Cassazione, questo passo è palesemente generico per quanto concerne sia il “disguido” sia la pretesa mancata ricezione dell’avviso. Il ricorrente, infatti, non dà alcuna indicazione delle ragioni per cui non aveva ricevuto il predetto avviso.
Peraltro nello stesso ricorso il ricorrente lamentava l’avvenuta violazione del principio processual civilistico del “raggiungimento dello scopo” dell’atto.
Eppure a detta degli Ermellini – tale assunto non è corretto posto che il difensore non era comparso in nessuna delle due udienze e perciò non si vede come possa dirsi raggiunto lo scopo. E neppure è sostenibile ritenere che lo scopo della norma fosse stato raggiunto con la proposizione dell’appello.
Errata sarebbe anche l’asserita violazione dei principi costituzionali ed eurounitari.
Il principio – afferma la Suprema Corte – non è discutibile sotto alcun profilo, dal momento che le norme di rito sono ontologicamente strumentali, e disciplinano appunto lo strumento processuale che è garantito dall’ordinamento per la tutela effettiva del diritto sostanziale. Ma proprio per garantire quest’ultima il processo non può non essere regolato, per evitare che ne sia fatto abuso e che quindi la complessiva macchina giudiziaria sia inceppata e rallentata (…). L’applicazione corretta di norme di rito, a ben guardare, se queste sono rispettose dei principi del giusto processo, costituisce il più efficiente strumento di tutela delle norme sostanziali.
Corrispondente, allora, al principio del giusto processo (di cui al comma 1 dell’art. 111 Cost e all’art. 6 CEDU) è il contraddittorio tra le parti in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
Ma la legge deve anche garantire “la ragionevole durata” di tale esercizio del contraddittorio tra le parti e della conseguente attività giurisdizionale.
La ragionevole durata del processo nel processo civile
Se una parte, allora, pur avendo dato impulso mediante la proposizione di un’impugnazione ed essersi costituita, per due volte di seguito non compare davanti al giudice, è ragionevole ritenere che l’impulso sia venuto meno, poiché altrimenti si conferirebbe all’appellante la facoltà di rallentare lo svolgimento del processo dopo che questo già per due udienze lo ha “atteso” per lo sviluppo del contraddittorio e la susseguente decisione giurisdizionale: e quindi un siffatto rallentamento supererebbe sine dubio i confini della ragionevole durata del processo.
Ed infatti, l’unica eccezione limite individuabile nell’applicazione di questo canone temporale racchiuso nell’art. 348 c.p.c., comma 2, sarebbe l’esistenza di una sopravvenuta oggettiva impossibilità dell’appellante di comparire in quelle due udienze, ovvero la “causa non imputabile” cui fa riferimento, per i termini perentori, l’art. 153 c.p.c..
Ma di una simile impossibilità oggettiva, il ricorso non faceva alcun cenno.
Per tali ragioni il ricorso è stato rigettato con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio.
La redazione giuridica
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