Con la decisione in commento* la Suprema Corte, pone alcune precisazioni in tema di responsabilità per ritardata diagnosi
Nello specifico, viene ritenuto responsabile un medico il quale non aveva immediatamente sospettato la presenza di un tumore a seguito di una lamentata (telefonicamente) dolenzia nodulare ascellare. Di più! Il medico in questione, aveva prescritto un antibiotico con conseguente scomparsa della sintomatologia dolorosa. A distanza di circa sei mesi, purtroppo, alla ricorrente veniva diagnosticata una patologia tumorale a rapida progressione con conseguente necessità di una linfoadenectomia ascellare radicale.
Orbene, analizzando la vicenda processuale vi sono alcuni elementi di particolare rilievo che meritano di essere analizzati.
Innanzitutto, sia in primo che in secondo grado, i giudici di merito avevano ritenuto non sussistente alcuna responsabilità risarcitoria sulla base di alcuni precisi assunti indicati nelle operate CTU. La possibilità che una dolenzia nodulare sia indicativa di tumore è statisticamente molto meno incidente rispetto alla possibilità che ci si trovi innanzi a patologie benigne a componente flogistica; il campanello d’allarme eventuale era scomparso con l’assunzione di terapia antibiotica ed antinfiammatoria.
In secondo luogo, pur considerando ritardata la diagnosi di un mese in sede di visita (avvenuta sei mesi dopo la prima chiamata) per omessa prescrizione, in quella sede, di una biopsia, l’evento danno lamentato si sarebbe verificato in maniera identica poiché la cura sarebbe consistita sempre e solo nella linfoadenectomia radicale.
Per tali motivi, i giudici di merito, non ritennero addebitabile alcuna responsabilità al sanitario in questione.
Tuttavia, secondo gli Ermellini, è viziata sotto il punto di vista della motivazione quella sentenza che si limita ad accogliere, acriticamente e senza adeguata motivazione, le conclusioni del CTU senza che il giudice “peritus peritorum” spieghi il perché egli consideri le dette conclusioni condivisibili.
Nello specifico caso in esame, prosegue la Suprema Corte, deve considerarsi, infatti, che non possa ritenersi sufficientemente prudente il comportamento del medico che, in ossequio ad un dato statistico (peraltro, per amor di verità, nel caso di specie non dirimente in maniera assoluta), ometta, sin dalla prima battuta, di approfondire la sintomatologia lamentata tramite l’esecuzione di una visita o di un accertamento diagnostico foss’anche invasivo.
Del pari, l’aver considerato irrilevante il ritardo diagnostico accertato (un mese) ai fini del prosieguo della malattia e della terapia risolutiva, appare erroneo giacchè occorre considerare la forza evolutiva della malattia che non può essere preconizzata in maniera assoluta. Nel caso della ricorrente, il tumore maligno dal quale era affetta, presentava particolare forza evolutiva, sicchè, l’intervenire tempestivamente, seppur non avrebbe comportato differenza dal punto di vista pratico operativo, avrebbe (secondo il principio del più probabile che non) potuto limitare l’infiltrazione metastatica ad altre regioni linfonodali.
Da ultimo, la Suprema Corte rileva un errore inescusabile nell’operato dei CTU e, quindi, nella motivazione dei giudici di merito. Nel caso in discorso, infatti, manca il giudizio contro fattuale. L’affermare che la diagnosi precoce non avrebbe in nulla modificato l’iter degli eventi morbosi, che l’intervento eseguito era l’unico percorribile e che gli effetti della evoluzione tumorale non sarebbero mutati anche se la diagnosi fosse avvenuta prima, è decisivo ai fini del riconoscimento di una responsabilità per il medico.
Proprio perché, su una questione tanto specifica quanto importante, non devono residuare dubbi, si rende necessario, ai fini di un completo iter logico-argomentativo, che i CTU non si limitino ad affermare quanto sopra esposto ma offrano la prova scientifica delle affermazioni stesse. In sostanza, conclude sul punto la Suprema Corte, ove non si affermi la totale inutilità dell’intervento non pare sostenibile che la sua anticipazione non potesse modificare in nulla la storia clinica della ricorrente.
Come è facile comprendere, la sentenza appena commentata apre la strada a diverse riflessioni tutte molto attuali. In tempi nei quali lo Stato tenta in ogni modo di imbrigliare i medici impedendogli la prescrizione di esami a carico del S.S.N., nei quali si discute di un DDL che renda il medico più sereno nel suo quotidiano operare limitandone i casi di responsabilità giudizialmente accertabile, che nel contempo lo rende passibile di rivalse dalle strutture nelle quali opera, nei quali la c.d. medicina difensiva è additata quale nemico di Stato numero uno e causa di costi esorbitanti ed insostenibili, basta una sentenza degli Ermellini a cancellare in un istante ogni bel discorso ed ogni (presunto) risultato raggiunto dal Governo.
Alla luce di quanto letto, il medico DEVE sospettare anche ciò che è meno che ipotetico sospettare, DEVE prescrivere, DEVE approfondire, DEVE effettuare immediatamente ogni forma di esame che lo scibile scientifico mette a sua disposizione. Ormai, il dubbio in medicina non sembra poter trovare posto. Ma allora, che non si faccia ricadere sul medico anche il peso di DOVER fare il proprio lavoro anche al di là di ciò che la scienza, la medicina, le linee guida, i protocolli, la sua sacrosanta esperienza gli suggeriscono di fare.
Avv. Gianluca Mari
* (Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2016, n. 343; Presidente: CHIARINI MARIA MARGHERITA Relatore: SESTINI DANILO)
Sembrerebbe altrettanto logico ipotizzare, di fronte a tanti importanti segnali che il mondo va da un’altra parte, che gli ermellini, e con loro il resto delle forme di vita che nel loro percorso formativo hanno avuto una educazione giudiziaria, decidano finalmente di cambiare mentalità.
Non è chiaro dall’articolo, ma sembrerebbe proprio che “l’evento danno” del caso in specie fosse l’inevitabile intervento chirurgico (e le sue sequele). E’ proprio questa mentalità malata, che equipara l’atto chirurgico, lesivo, certo, dell’integrità della persona, ma compiuto proprio in nome e per il bene di quella persona, ad un evento il cui solo fine è di determinare un danno, ad aver permesso il perpetrarsi in Italia della perseguibilità penale del medico. Noi chirurghi nella nostra vita professionale di ogni giorno mai afferriamo il bisturi in mano con l’intento di un assassino (dolo) o con la negligente assenza di consapevolezza di chi, magari a scopo di autodifesa, pugnala un altro individuo.
E se il tanto sospirato DDL Gelli andrà in porto, superando l’esame del Senato, il 98℅ delle cause penali mosse contro i chirurghi, quelle pretestuose che si concludono con un nulla di fatto, ma dopo anni di spese legali, preoccupazioni e lesioni della dignità e dell’immagine di tanti professionisti che fanno onestamente il loro lavoro, sparirà d’incanto, lasciando a giudici ed avvocati tanti tempo libero per occuparsi più proficuamente di altre questioni…
Sono uno specialista neurochirurgo, ed attualmente, dopo 35 anni passati in ospedale in servizio attivo, logorante e mal retribuito, esercito attività libero-professionale di chirurgia vertebrale. Durante la mia attività clinico-ambulatoriale mi sto imbattendo di recente in un fenomeno che colpisce in particolare questa branca specialistica, che, come si sa, per poter essere esercitata congruamente, necessita di accertamenti diagnostici sofisticati (vedi RMN) e soprattutto frequenti. Mi riferisco alle recenti norme che impediscono e/o ostacolano i medici di base nel prescrivere indagini di questo tipo con una “certa” frequenza, anche se la quantificazione di tale frequenza è oscura. Faccio un paio di esempi frequentissimi: 1 – mi giunge a visita un paziente, sofferente per lombalgia o lombosciatalgia, o “claudicatio” neurogena, o deficit neurologici più o meno gravi agli arti inferiori (tutti sintomi causati da patologie vertebrali, che, come si sa, non si limitano alla semplice ed ormai poco importante ernia discale), il quale paziente mi mostra una RMN della colonna, eseguita magari qualche mese prima, in occasione dell’esordio sintomatologico, e con qualche segno patologico non del tutto congruo con la situazione clinica attuale attuale, il che impone la ripetizione dell’esame aggiornato.
2 – mi giunge a visita un paziente nelle stesse condizioni del precedente, ma che mostra un esame RMN recente, eseguito però con una apparecchiatura a basso campo magnetico (la famigerata e tanto amata dai pazienti “risonanza aperta”) e magari obsoleta: solo gli specialisti del settore sanno quanto sia fuorviante e pericoloso per una eventuale misdiagnosi tale esame e solo gli specialisti del settore sanno che non ci si può fidare del referto del radiologo, il quale, non esercitando la professione di clinico (egli infatti non visita il paziente, non sa perché il paziente esegue l’esame, addirittura spesso legge l’esame in assenza del paziente). Anche in questo caso si impone, ai fini di una corretta diagnosi e successiva corretta terapia, la ripetizione dell’esame con apparecchio ad alto campo magnetico. Ma in entrambi i casi il medico di base si rifiuta di ripetere l’impegnativa al paziente, a suo dire minacciato dalla ASL a rimborsare EGLI STESSO l’esame prescritto dallo specialista. Siamo alla frutta: il paziente, se si vuole curare correttamente. è costretto a pagare di tasca sua l’esame da ripetere! E’ grottesca la situazione del caso 2: chi vende esami RMN con apparecchiatura inidonea incassa il rimborso del SSN, ed il paziente è costretto a ripetere l’esame pagando di tasca sua. L’apparecchio RMN a basso campo magnetico non permette di leggere dettagliatamente le immagini, le quali sono acquisite molto sommariamente, per fare un esempio è come se tentassimo di riconoscere un volto in una fotografia sfocata. E noi dovremmo, secondo le supposizioni dei burocrati fare una corretta diagnosi con tali immagini e poi eseguire un eventuale intervento chirurgico sulla base di tali immagini! E se invece i signori burocrati e funzionari addetti al controllo di qualità e all’accreditamento degli esami specialistici convenzionati facessero il loro dovere con onestà e competenza, non accreditando tali strutture? Ad ogni buon conto segnalo che tale fenomeno esiste da molti anni, ma solo di recente sta emergendo proprio in funzione delle nuove norme che impongono ai medici di base tali comportamenti. In passato la ripetizione necessaria degli esami RMN veniva prescritta a carico del SSN, il quale spendeva il doppio per rimborsare la prima e la seconda RMN: adesso cambia solo la tasca dalla quale viene derubato il denaro speso per coprire l’inutilità del primo esame.
Carissimo Roberto condivido appieno la tua opinione ma comunque ritengo impossibile che nei casi di cui facevi esempio il medico di base su richiesta specialistica possa omettere la prescrizione. In caso di danno al paziente sarebbe lui a risponderne e forse sarebbe ora di responsabilizzare tali figure che per la loro importanza dovrebbero avere coraggio come un chirurgo e come altro sanitario che fa diagnosi e terapia chirurgica. Penso sia finito il tempo dei passacarte e comunque le cause contro i medici di base stanno aumentando e mi sembra scontato tale evento in quanto la prima presa in carico di un paziente in elezione è del medico curante che si ritiene debba essere all’altezza, sempre, di ogni situazione. La colpa del medico prescrittore va comunque dimostrata prima di poterlo sanzionare. I medici di base dovrebbero acquisire questa coscienza.
Cari Saluti e buon proseguo
Carmelo Galipò
Non ci si può aspettare dal povero medico di base di sapere come richiedere tutti gli esami specialistici come quanti tesla usare durante la MRI. Il medico di base dovrebbe capire dall’esame e dalla storia clinica qual’è lo specialista (e possibilmente uno capace) adatto ai bisogni del paziente . E lasciare decidere allo specialista quali esami richiedere. Il problema tutto italiano è che spesso anche lo specialista è se non del tutto incompetente non certo preparato adeguatamente e quando viene fatta una ricetta per visita specialistica non sai mai chi ti visiterà. È come una lotteria. Cordiali saluti, gregorio maldini