Nella giustizia civile, il primo filtro valutativo –rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti

In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettare questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio”.

È quanto ribadito in una recente pronuncia della Terza Sezione Civile della Cassazione (sentenza n. 16898/2019) che ha dichiarato inammissibile il ricorso formulato da un difensore perché le censure addotte, in parte, violavano il principio di autosufficienza ed in parte perché, sia pur attraverso il formale riferimento al vizio di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c., erano finalizzate, nella sostanza, ad un riesame nel merito dell’intera controversia, notoriamente non consentito in sede di legittimità.

La condanna per lite temeraria

Nello stessa sentenza la Cassazione ha altresì disposto, la condanna del ricorrente alla sanzione di cui all’art. 96 ultimo comma c.p.c.

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha “recentemente riesaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo sia alla evoluzione della fattispecie dei danni putativi che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento.

Ebbene, si è detto che “la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 1 e 2 c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo” quale l’aver agito o resistito pretestuosamente e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione”.

L’abuso del processo

In via esemplificativa, può costituire abuso del diritto all’impugnazione, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 350 comma 1, n. 5 c.p.c., ove sia applicabile, ratione tenporis, l’art. 348ter ultimo comma c.p.c. che ne esclude la invocabilità.

In tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato ad aumentare il volume del contenzioso e conseguentemente a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.

Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione ha affermato di voler valorizzare la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo –rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.

Per tali motivi la Cassazione ha condannato il ricorrente al pagamento. in favore della controparte, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata in 2.500 euro pari, all’incirca, in termini di proporzionalità, alla metà dei compensi liquidati in relazione al valore della causa.

La redazione giuridica

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