Albert, Uno schifo bellissimo

Un breve excursus nei colloqui effettuati in un carcere italiano tra me ed un utente tossicodipendente

“Sono un tossicodipendente, diciamoci la verità, sono un tossicodipendente di merda”. Dopo 5 mesi circa di colloqui l’identificazione schiacciante al tossicomane emerge. Gli chiedo “solo?”, risponde “No, ho fatto anche qualcosa di buono”.

Albert è un uomo piacevole, sulla sessantina, che si ritrova a scontare la seconda condanna per narcotraffico. Dopo aver scontato la prima, rientra nella società e mosso dalla “rabbia e dalla vendetta” si riprende tutto quello che aveva costruito, spacciando e consumando cocaina perlopiù per “distruggersi”.

In circa 1 anno fuori dal carcere riesce a fare nuovamente fortuna, con al fianco la sua famiglia allargata: la madre ancora vivente ma che ancora lo rifiuta, la prima moglie con il primo figlio, la compagna con il secondo figlio. Si descrive come un uomo fortunato per la presenza di tutte queste donne nella sua vita che si sono affiatate anche tra loro. Gli chiedo perché si sia lasciato con la prima moglie “Perché lei era stanca della cocaina”, “ah…” gli sottolineo, mi sorride.

Mi faccio spiegare la sua storia con la cocaina, mi racconta che le prime volte l’ha utilizzata intorno ai 16 anni, iniziando con degli amici, ma sarà una volta raggiunta la soddisfazione lavorativa che la cocaina inizierà ad avere un ruolo primario: Albert si rinchiude in un albergo, prepara circa una trentina di strisce di sostanza ed inizia il suo viaggio verso lo “spegnimento del cervello”, che dura un intero weekend, durante il quale non mangia, non risponde al telefono, ma si annienta. Gli sottolineo la sorpresa che mostra nel dire che la cocaina non gli serve per fare di più ma per distruggersi. “Lei”, la sostanza, la consuma da solo perché deve essere “lontano dallo sguardo dell’altro che mi giudicherebbe”, contemporaneamente ammette che tutti sapevano ma nessuno “l’ha fermato”, l’Altro del limite non si è palesato.

La sua infanzia la descrive come bellissima, gli chiedo dei ricordi e ne ha pochi “mio padre non c’era mai, pur di non stare a casa aveva due lavori, dopo pranzo per leggere il giornale andava in macchina. Io tornavo da scuola e lo vedevo in macchina col giornale”. Un tratto d’identificazione paterna emerge con la scelta lavorativa, Albert decide di intraprendere lo stesso lavoro del padre e di affiancarlo, sul posto di lavoro stabiliscono un rapporto “bellissimo”, finalmente parlano, poi tornano a casa e continuano a trattarsi come due estranei.

Un sogno “raggiungo mio padre che è in difficoltà, ma trovo mio cugino che è arrivato prima di me e gli chiedo “ma perché non ti sei fatto aiutare da me, io ti avrei potuto difendere?”. L’opposizione tra scarto ed ideale è sempre presente. “E poi c’era mia madre..” ha grande difficoltà a parlare della madre, un’alcolista dipendente dagli psicofarmaci di cui abusava. Con Albert il rapporto era pessimo, lo picchiava fino allo sfinimento, con un cucchiaio di legno, col battipanni ed infine con un frustino. Alla fine di queste esplosioni, la madre assumeva psicofarmaci ed andava a dormire.

Nel parlarne Albert dice “ma io evidentemente me lo meritavo, lei poverina aveva i suoi problemi, poi anche io le ho dato filo da torcere..”. L’identificazione con lo scarto incalza. “Tutti me lo dicono, assomiglio a mia madre, scoccio, assillo, tratto male..” in famiglia, mentre fuori casa riesce ad essere un uomo “buono, che si batte per gli operai”, gli sottolineo la somiglianza con la madre ed Albert inizia a cogliere un parallelismo tra la sua scelta sintomatica e quella materna tuttavia aggiunge “pensare che la colpa è di mia madre, è qualcosa che mi fa male, che non riesco a mandar giù”, gli rispondo che non stiamo giocando a Cluedo, ma stiamo provando a ricostruire la sua storia.

Libertà Trovano della droga nella barberia della sua sezione, vengono puniti tutti e gli si vieta di uscire. È sconvolto dalla “legge cieca” che istiga ad un regolamento di conti tra detenuti, si dice sconvolto anche perché si è scordato che in quella mattinata l’avrei chiamato a colloquio, è sorpreso da questa dimenticanza: “perché parlare con te è essere liberi, è l’unico momento della settimana in cui le sbarre non esistono più”. L’Altro della parola ha fatto breccia! L’Istituzione all’interno di cui opero mi ricorda della transitorietà e particolarità del setting, inizio ad introdurre un lavoro simbolico sull’ingresso in comunità affinchè la conclusione del lavoro non sia “legge cieca”, bensì “leggEtica”.

Dott.ssa Rosaria Ferrara

(Psicologa Forense)

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