Attenzione ad insulti e parolacce sul posto di lavoro. Riveste infatti particolare gravità una condotta del genere, e può condurre al licenziamento.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 12102/2018, ha fornito chiarimenti sui rischi per il lavoratore che non lesina urla e parolacce nei confronti dei colleghi di venire licenziato.
Per i giudici, infatti, riveste particolare gravità la condotta del lavoratore che sfoga con urla e parolacce la propria rabbia sugli altri dipendenti.
La vicenda
Protagonista della vicenda oggetto della sentenza è un medico, dirigente di una struttura sanitaria. L’uomo era solito sfogare la propria ira con urla e parolacce sugli altri lavoratori, dipendenti dell’amministrazione della Casa di Cura.
Il tutto anche alla presenza degli utenti e dei loro familiari. Un comportamento che la Cassazione ha ritenuto passibile di licenziamento.
In particolare, al medico veniva contestato di aver sfogato la propria rabbia con insulti, aggredendo l’addetta al personale e il direttore della Casa di Cura.
In prime cure, il medico aveva impugnato il licenziamento disciplinare. A suo avviso, questo difettava della giusta causa e della proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti, non riconducibili ad alcune delle ipotesi per le quali il CCNL consentiva l’adozione della massima sanzione.
L’impugnativa però è stata respinta dal Tribunale adito con decisione poi reclamata dal medico in sede di gravame.
La Corte d’appello, accogliendo il reclamo, ha ritenuto insussistente il fatto contestato, ovvero rientrante tra le condotte punibili, secondo il c.c.n.l., con una sanzione solo conservativa.
Tuttavia, in Cassazione, la società ha impugnato la decisione sostenendo proprio che vi fosse stata una erronea interpretazione fornita dalla sentenza impugnata in ordine alla nozione di “insussistenza del fatto contestato”, di cui al comma 4 dell’art. 18 novellato.
La Cassazione ha accolto tale doglianza, spiegando che l’orientamento della giurisprudenza in materia di interpretazione del comma 4 dell’art. 18 novellato è nel senso che l’insussistenza del fatto contestato comprende l’ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità (o antigiuridicità).
Quindi, in tale ipotesi, si applica la tutela reintegratoria. Il tutto, però, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.
Nel caso di specie, risulta accertato il fatto contestato. Inoltre, dal ccnl non risulta che tale condotta sia stigmatizzata con una sanzione meramente conservativa.
Infatti, il ccnl non contiene una tipizzazione degli illeciti, rimettendo l’art. 11 del c.c.n.l. la sanzione alla valutazione della loro gravità. Ne consegue che il licenziamento è previsto nei casi di particolare gravità.
Il comportamento del medico risulta indubbiamente esistente e per di più avvenuto in presenza del personale dell’azienda e degli utenti di essa. Pertanto, la particolare gravità risulta configurata ampiamento.
Si può dunque discettare della proporzionalità, ma non ritenere insussistente il fatto, come ha invece fatto la Corte d’Appello. Il ricorso è stato quindi accolto e la causa è stata rinviata ad altro giudice.
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