Ambiguità della CTU e rifiuto del consulente di fornire chiarimenti

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Il paziente ritiene responsabile il Policlinico di Modena dell’ascesso peritoneale a cui seguiva una massiccia resezione intestinale con necessità di ileostomia e colostomia. Si segnala la singolarità della vicenda per la ambiguità della CTU che conclude con due ipotesi differenti e per il rifiuto da parte del consulente di fornire chiarimenti nel grado di appello.

Il caso clinico

Nel luglio 2004 il paziente, reduce da un intervento chirurgico per asportazione di un carcinoma vescicolare, si sottoponeva a un intervento chirurgico di laparotomia esplorativa e adesiolisi con resezione ileale. Veniva dimesso, ma pochi giorni dopo, il 19 luglio 2004, era nuovamente ricoverato al Policlinico e sottoposto a un secondo intervento operatorio di laparotomia esplorativa.

La sua condizione non migliorava e, nell’agosto successivo, si accertava a mezzo di una TAC la presenza di un ascesso addominale con processo peritoneale e fuoriuscita di materiale enterico, per perforazione intestinale. Trasferito su iniziativa dei familiari presso un’altra struttura ospedaliera, subiva un ulteriore intervento chirurgico, con successiva terapia intensiva, di resezione di gran parte dell’intestino, con conseguente colonstomia.

La vicenda giudiziaria

Ritenendo di aver subito un pregiudizio dagli interventi non risolutivi e dalla tardiva attivazione post operatoria dei sanitari di Modena, citava in giudizio l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico di Modena. Il danneggiato chiedeva la condanna al risarcimento dei danni biologico, morale e patrimoniale, comprensivi della perdita della capacità lavorativa specifica. Chiedeva, inoltre, il risarcimento del danno esistenziale subito dalla moglie, a causa dell’imperizia dei medici del Policlinico che gli provocarono un ascesso peritoneale a cui seguiva una massiccia resezione intestinale con necessità di ileostomia e colostomia.

Il Tribunale disponeva CTU che, previa ricostruzione dell’accaduto, descriveva il comportamento dei medici del Policlinico e concludeva che esso poteva essere valutato in due modi differenti: il fatto, oggettivo, che il paziente fosse stato lasciato con l’intestino aperto per la durata di più di venti giorni poteva configurarsi come un vero e proprio danno iatrogeno, di rilevanza pari alla percentuale di invalidità permanente finale riportata dal paziente all’esito di tutto il percorso operatorio. Oppure poteva configurarsi come un danno più contenuto, legato soltanto all’essere stato lasciato venti giorni appunto con l’intestino aperto, in tal caso coincidente col prolungamento della malattia per un periodo di circa 10-15 giorni.

Il Tribunale di Modena, di fronte all’ambiguità della CTU che proponeva due possibili ipotesi valutative, di diversa gravità, faceva propria la soluzione minore e condannava il Policlinico al pagamento di 5.035 euro, pari al danno per il prolungamento della malattia.

Il ricorso in Appello

La Corte d’Appello richiamava a chiarimenti il CTU di primo grado, segnalandogli che le sue conclusioni non univoche non mettevano il collegio in grado di decidere tra l’una o l’altra ipotesi. Chiedeva quindi al CTU di indicare, sulla base del criterio valutativo del più probabile che non, quale delle due ipotesi già prospettate in primo grado dovesse essere fatta propria a fini decisori. Il CTU segnalava per iscritto la sua impossibilità di redigere i chiarimenti richiesti senza l’ausilio di uno specialista chirurgo e chiedeva di essere sollevato dall’incarico. La Corte d’appello invitava il consulente a rispondere al quesito, il Consulente riproponeva la sua soluzione bifronte, segnalando di non disporre di evidenze scientifiche in grado di farlo propendere anche solo con il criterio del più probabile che non per la prima o per la seconda ipotesi.

L’ambiguità della CTU

Conclusivamente, la Corte, rigettando l’istanza di rinnovazione della CTU formulata, rigettava l’appello affermando che mancava la prova, a carico dell’attore, che fosse più probabile che non la sussistenza di un nesso causale tra la condotta dei sanitari convenuti, consistente sia nella non corretta esecuzione del secondo intervento, sia nel ritardo nell’affrontare gli esiti del decorso post-operatorio e nel prospettare la necessità di un terzo intervento, e il danno riportato dal paziente. Confermava quindi la decisione di primo grado affermando che fosse raggiunta la prova soltanto dell’incidenza causale del comportamento dei sanitari modenesi sul prolungamento del periodo di malattia di 15 o 20 giorni, non avendo ottemperato l’appellante al proprio onere di provare il nesso causale tra il comportamento dei medici e i danni permanenti riportati.

In sintesi, i Giudici di Appello non ritenevano provato, neppure in termini probabilistici, che il complessivo comportamento tenuto dai medici del Policlinico di Modena fosse stato causa della situazione complessiva in cui si era trovato il paziente, costretto a sottoporsi a un terzo intervento all’intestino presso un diverso ospedale, con resezione di un ampio tratto di esso e colonstomia.

L’intervento della Cassazione

Alla Corte di Cassazione viene lamentato che il CTU, praticamente, è stato costretto dall’atteggiamento preso dalla Corte d’appello di Bologna a redigere il documento richiesto, nel quale non ha fornito alcun chiarimento giacché gli veniva negata la possibilità di avvalersi delle competenze di un chirurgo, ritenute evidentemente decisive. Il Consulente non soltanto non forniva i chiarimenti richiesti e non rispondeva ai quesiti postigli optando per l’una o l’altra delle due alternative soluzioni proposte, ma, di fatto, confessava la propria inadeguatezza tecnica, che la Corte avrebbe dovuto cogliere e rispetto alla quale avrebbe dovuto prendere le opportune iniziative, e che invece non ha individuato, ribaltando (erroneamente) le carenze tecniche del CTU sulla parte danneggiata e facendone discendere il rigetto della impugnazione.

La Corte d’appello, difatti, ha affermato che, non avendo l’appellante dato la prova del nesso causale, la causa del danno sia rimasta incerta e l’impugnazione doveva essere rigettata.

Nel caso di specie, però, tale conclusione non è corretta perché l’incertezza eventistica in sé non sussiste.

Già in primo grado veniva accertato che il paziente, già sottoposto ad un intervento precedente di rimozione di una patologia cancerogena e poi operato all’addome nell’ospedale di Modena, rimase per una serie di giorni con l’intestino aperto, esposto al rischio della perforazione intestinale poi verificatasi. Questi fatti sono stati accertati già in primo grado, ed è stata accertata già in primo grado l’incidenza causale di questi fatti su alcune, quantomeno, delle conseguenze dannose lamentate dal paziente.

Per la Cassazione i giudici di secondo grado hanno agito erroneamente

Ergo, ciò che i Giudici di Appello di Bologna dovevano valutare era la misura della riconducibilità delle condizioni post-operatorie del paziente all’operato di sanitari del Policlinico di Modena, se cioè agli stessi fossero addebitabili o meno, nella loro interezza, i postumi invalidanti riportati dal paziente: oggetto dell’accertamento era dunque quali fossero effettivamente le conseguenze da ricondurre a quel fatto dannoso.

È errato pertanto che i Giudici di secondo grado abbiano ricondotto il rigetto della domanda alla incertezza sulla causa del danno ed egualmente errato che siano stati ribaltati sulla vittima gli esiti lacunosi dell’attività istruttoria (Cassazione Civile, sez. III, 13/05/2024, n.13038).

È al di fuori di qualsiasi logica che il Giudice da un lato abbia ritenuto sussistente la necessità di una Consulenza e poi abbia dato atto dell’ambiguità delle conclusioni dell’elaborato, senza approfondirle come richiesto dallo stesso Consulente, e dall’altro abbia rigettato l’impugnazione ribaltando sulla parte, riconducendola al mancato espletamento dell’onere probatorio, la pur rilevata carenza o ambiguità dell’elaborato peritale.

Avv. Emanuela Foligno

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