La donna lamentava l’esiguità dell’incremento dell’assegno divorzile dopo la revoca della casa coniugale e del contributo, da parte del marito, in favore del mantenimento della figlia

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6470/2020, si è pronunciata sul ricorso presentato da una donna contro il decreto con cui la Corte di appello, confermando la decisione del Tribunale, disponeva,  a partire dall’inizio del rapporto lavorativo della figlia con una società multinazionale, la revoca del contributo del padre in favore della ex coniuge per il mantenimento della ragazza. Contestualmente veniva disposta la revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla ricorrente, mentre – in parziale accoglimento della riconvenzionale con cui l’ex moglie aveva richiesto l’aumento dell’assegno divorzile fino 1.950,00 – veniva incrementato l’importo da 460 Euro a 500 Euro.

La ricorrente denunciava, tra gli altri motivi, la violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9 e l’omessa comparazione dei redditi delle parti ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile. A suo avviso il Giudice di secondo grado aveva pretermesso una valutazione comparativa dei redditi delle parti, limitandosi ad affermare che l’aumento dell’assegno divorzile avrebbe trovato giustificazione nella revoca dell’assegnazione della ex casa coniugale senza apprezzare l’esiguità dell’incremento, pari a soli 40 Euro, rispetto all’”enorme sproporzione dei redditi delle parti”.

L’ex marito, infatti, era un imprenditore commerciale di successo con tenore di vita più che agiato e risorse illimitate ed accresciute rispetto all’epoca del divorzio.

Peraltro, era anche titolare di sette immobili di pregio e dopo il divorzio aveva acquisito la disponibilità di un ulteriore appartamento intestato alla seconda moglie, nonché il possesso e la disponibilità di una prestigiosa villa utilizzata nella stagione estiva, anch’essa intestata alla seconda moglie.

La donna, inoltre, contestava la violazione dell’art. 337-sexies del codice civile, in tema di quantificazione dell’assegno divorzile in seguito alla revoca dell’assegnazione dell’ex casa coniugale. La figlia, infatti, si era trasferita per iniziare un rapporto lavorativo con un contratto di 24 mesi di apprendistato, sostenendo ancora gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione, ma continuava a recarsi mensilmente presso l’abitazione familiare, con costi a carico della madre. La ricorrente sarebbe stata poi privata di un incremento dell’assegno proporzionato all’onere di reperire una nuova abitazione. A suo giudizio, dalla vendita o dalla locazione della ex casa coniugale nella cui disponibilità era rientrato, l’ex marito avrebbe tratto un consistente beneficio economico mentre lei avrebbe dovuto reperire una diversa soluzione abitativa con conseguente esborso.

Infine, secondo l’impugnante,  i giudici di merito avevano ritenuto che la circostanza che i genitori non dovessero più mantenere la figlia avrebbe reso congruo l’assegno divorzile, senza poi interrogarsi sull’ammontare della quota dei redditi della ricorrente riservata al mantenimento della figlia.

La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte, respingendo il ricorso in quanto inammissibile.

Per gli Ermellini, infatti, la ricorrente non aveva allegato quale somma fosse tornata nella sua libera disponibilità all’esito della revoca del contributo per la figlia, ormai autosufficiente, al fine di consentire un apprezzamento dell’incapacità dello stesso, implementato di soli 40 Euro, di consentirle quantomeno di prendere in locazione un bene presso cui risiedere. Non veniva quindi indicato il parametro su cui commisurare l’incremento dell’assegno divorzile nella denunciata insufficienza dell’aumento dispostone.

La redazione giuridica

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