Anche i cani e gli “animali d’affezione o da compagnia” rientrano tra le cose mobili suscettibili di divenire oggetto di diritti soggettivi e possibili oggetto di furto

La vicenda

La Corte di appello di Brescia aveva condannato dodici imputati per furto in abitazione di sessantasette cani di razza Beagle, sottratti ad uno stabulario.

La vicenda giunta in Cassazione è stata definita con la sentenza in commento (Quinta Sezione, n. 40438/2019).

In primo luogo, il Supremo Collegio, ha ritenuto non condivisibile la tesi sostenuta dalla difesa dell’esclusione dei cani dalla categoria dei beni mobili e della possibilità, dunque, che essi possano costituire l’oggetto materiale del delitto di furto.

A parte, infatti, la constatazione di ordine generale che l’art. 625 c.p., comma 1, n. 8 annovera espressamente gli animali tra le cose mobili altrui sulle quali può essere commesso il fatto di cui all’art. 624 c.p. (con un incremento di pena ove gli stessi siano: “raccolti in gregge o in mandria, ovvero su bovini o equini, anche non raccolti in mandria”, derivante dal danno economico cagionato al proprietario che viva dei proventi dell’allevamento del bestiame (in quanto destinato alla produzione di latte, lana, pellame ovvero ad essere utilizzato come strumento da soma o da traino), in materia la giurisprudenza si è più volte espressa, nel senso di includere anche degli “animali d’affezione o da compagnia” tra le cose mobili suscettibili di divenire oggetto di diritti soggettivi.

La giurisprudenza di lgittimità

Nitidamente la Suprema Corte, nella sentenza Sez. 2 Civ., n. 22728 del 25/09/2018, ha osservato che: “Nel campo dell’esperienza giuridica vanno considerati come “cose” anche gli esseri viventi suscettibili di utilizzazione da parte dell’uomo: non solo i vegetali, ma anche gli animali. L’uomo ha sempre manifestato verso gli animali, in quanto esseri senzienti, un senso di pietà e di protezione, quando non anche di affetto. Da qui l’esistenza, in tutte le epoche storiche, di precetti giuridici, essenzialmente di natura pubblicistica, posti a salvaguardia e a tutela degli animali (basti pensare, subito dopo l’unificazione dell’Italia, al codice Zanardelli, che puniva gli atti crudeli, le sevizie e i maltrattamenti verso gli animali; fino alla più recente L. 20 luglio 2004, n. 189, che ha inserito nel libro 2 del vigente codice penale il nuovo “Titolo 9-bis”, denominato “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”, configurando, a tutela degli animali, una apposita serie di delitti in luogo delle precedenti contravvenzioni).

Non tutti gli animali, però, assumono per l’uomo lo stesso significato ed hanno lo stesso rilievo. Com’è noto, a parte gli animali selvatici (i quali ricevono protezione attraverso la legislazione che regolamenta la caccia e individua le specie “protette”), gli animali addomesticati dall’uomo sono tradizionalmente distinti in animali “da reddito”, utilizzati per il lavoro o per la produzione (carni, latte, uova, lana, pelli, etc.), e animali “da compagnia” (o “d’affezione”), per tali intendendosi “ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto, dall’uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari” (D.P.C.M. 28 febbraio 2003, art. 1).

Ed il crescente ruolo che negli ultimi decenni hanno assunto gli animali da compagnia nella società contemporanea ha indotto uno speciale rafforzamento della loro tutela giuridica; rafforzamento attuato, principalmente, con la L. 14 agosto 1991, n. 281 (c.d. “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”) e con la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia, stipulata a Strasburgo il 13 novembre 1987 e ratificata in Italia con la L. 4 novembre 2010, n. 201.

È stato, tuttavia, precisato che la disciplina pubblicistica che appresta tutela agli animali non rende comunque questi ultimi titolari di diritti.

Si è detto, infatti, che “l’animale, per quanto sia un essere senziente, non può essere soggetto di diritti per la semplice ragione che è privo della c.d. “capacità giuridica” (che si definisce, appunto, come la capacità di essere soggetti di diritti e di obblighi); capacità che l’ordinamento riserva alle persone fisiche e a quelle giuridiche. L’animale, perciò, è solo il beneficiario della tutela apprestata dal diritto e non il titolare di un diritto alla tutela giuridica”.

In questo senso, la comune espressione “diritti degli animali” va intesa in senso a-tecnico, a-giuridico, con essa intendendosi riferire, non già alla (inconfigurabile) titolarità di diritti soggettivi da parte degli animali, ma al complesso della tutela giuridica che il diritto pubblico appresta in difesa di quegli esseri viventi”. Da qui la conclusione secondo la quale, alla stregua del disposto dell’art. 810 c.c. che definisce i beni come “le cose che possono formare oggetto di diritti”, gli animali, anche quelli d’affezione o da compagnia, devono essere considerati come: “”cose mobili”, beni giuridici che possono costituire “oggetto” di diritti reali (cfr. artt. 812,816,820,923,924,925,926,994,1160,1161,2052 c.c.) ovvero di rapporti negoziali (cfr. artt. 1496,1641,1642,1643,1644,1645 c.c.)”.

Il furto di cani

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha pertanto ribadito l’astratta configurabilità del delitto di furto avente ad oggetto cani, ma ha al tempo stesso, escluso nel caso in esame, la ricorrenza dei presupposti del reato di furto in abitazione previsto dall’art. 624-bis c.p.

Invero, la corte territoriale aveva desunto la destinazione abitativa dello stabulario – ove si trovavano le cagne gravide e i cuccioli sottratti dagli imputati- dall’essere il detto luogo protetto da misure di sicurezza ed interdetto all’accesso di estranei, “ma si tratta di conclusione – hanno affermato gli Ermellini – che diverge dagli approdi cui è pervenuto il diritto vivente; il quale, con la sentenza a Sezioni Unite n. 31345 del 23/03/2017, ha delineato la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili, elementi: a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare”.

Il furto in abitazione

Nel citato autorevole arresto si è, in particolare, chiarito che la disciplina dettata dall’art. 624-bis c.p. è estensibile ai luoghi di lavoro “Soltanto se essi abbiano le caratteristiche proprie dell’abitazione”, ove le persone svolgano ” atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento)”, posto che: “se la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente, tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere l’art. 52 c.p., comma 3 per estendere l’applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Evidentemente tale precisazione è stata ritenuta necessaria perchè, secondo il legislatore, la nozione di privata dimora non è, in generale, comprensiva dei luoghi di lavoro”, esigendosi che essi vengano adoperati, per un titolo non occasionale, per lo svolgimento di attività private.

Ora, nel caso di specie, non vi erano ragioni cui desumere la destinazione dei capannoni nei quali i cani erano allevati a fini abitativi, nè del loro concreto utilizzo per siffatte finalità.

Per queste ragioni, limitatamente ai motivi accolti, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata con rinvio alla corte d’appello per un nuovo esame.

Avv. Sabrina Caporale

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