La causa che ha portato al decesso della paziente è da ricondursi alla errata lettura dei vetrini del PAP Test da parte del laboratorio analisi (Tribunale di Sassari, Sentenza n. 570/2021 del 29/05/2021 RG n. 2414/2016 – Repert. n. 929/2021 del 31/05/2021)

Con ricorso ex art. 702 bis cpc la paziente conveniva in giudizio l’Azienda Ospedaliera e la Biologa, premettendo che nel mese di aprile 2011 si era sottoposta a visita ginecologica presso l’Ospedale Civile di Alghero all’esito della quale, e delle indagini diagnostiche richieste, era stata accertata la presenza di un carcinoma spinocellulare infiltrante della cervice uterina, diagnosi poi confermata anche dagli ulteriori esami eseguiti presso l’Ospedale di Cagliari.

Espone, che a seguito di visita ginecologica effettuava in data 24.10.2009 un PAP test con esito negativo e successivamente in data 4.2.2010 altro PAP test con esito incerto.

Lamenta che a seguito dell’accertamento della grave patologia diagnostica tale subiva diversi interventi chirurgici e numerosi trattamenti chemioterapici e radioterapici, con grave pregiudizio per la sua integrità fisica e la capacità lavorativa.

Precisa, inoltre, di avere esperito ATP obbligatorio, all’esito del quale emergeva l’errata lettura degli esiti citologici del Pap Test effettuato in data 24.10.2009 e di quello effettuato in data 4.2.2010, con conseguente intempestività delle cure praticate solo dopo l’accertamento effettuato presso l’Ospedale di Alghero, a distanza di 2 anni.

Nel corso del giudizio la paziente decede e la causa viene riassunta dall’erede.

Si costituisce in giudizio la Biologa contestando la domanda proposta nei suoi confronti e sostenendo di non avere responsabilità alcuna attesa la mancanza di nesso causale tra il comportamento da lei posto in essere e la patologia accertata alla paziente, precisava di essere la biologa addetta alla lettura degli esiti del Pap test e di avere refertato il Pap test del 24.10.2009 ; a sua difesa allegava la determinazione scientifica che l’esito di tale indagine poteva avere riscontro negativo e che la lettura scientifica consigliava la ripetizione dell’esame anche in ipotesi di primo risultato negativo, concludeva per il rigetto della domanda, chiedeva comunque l’autorizzazione alla chiamata in causa della compagnia di assicurazione.

La causa viene istruita con produzioni documentali, accertamento tecnico preventivo e supplemento di Consulenza Tecnica di ufficio.

Il Tribunale, preliminarmente, ripercorre la vicenda sanitaria della paziente.

La donna, su richiesta del proprio ginecologo, a seguito della visita espletata, si sottoponeva in data 24.10.2009 a PAP TEST, refertato con “esito negativo per lesione intraepiteliale o malignità”, e una seconda volta in data 04.02.2011 il PAP TEST veniva refertato come “striscio insoddisfacente per eccesso di eritociti. Si richiede un ulteriore campione”.

Nel mese di aprile 2011 si sottoponeva a visita ginecologica presso l’Ospedale di Alghero e in detta occasione veniva diagnosticato un carcinoma spinocellulare infiltrante della cervice uterina, diagnosi confermata da ulteriori esami eseguiti dall’Ospedale di Cagliari.

Successivamente la donna subiva interventi chirurgici presso l’ospedale Gemelli di Roma, cicli di chemioterapia. Recidive in essere al momento della proposizione della domanda, la conducevano alla morte avvenuta i n corso di causa.

L’evolvere della patologia ha comportato l’indagine in ordine all’esito del vetrino relativo al PAP TEST effettuato in data 24.10.2009 e quello del febbraio 2011 , indagine effettuata a richiesta della paziente e alla presenza di un suo Consulente di parte il quale procedeva alla lettura con l’esito per il vetrino del 2009 “Materiale citologico cervicale. Esame con anomalie delle cellule epiteliali squamose. Lesione squamosa intraepiteliale di basso grado (L -SIL), ma non si esclude una lesione intraepiteliale di alto grado (ASC -H) “; mentre il preparato del 2011 veniva letto come: “Materiale citologico cervicale. Esame con anomalie delle cellule epiteliali squamose, sospette per la presenza di un carcinoma “.

Per tale ragione, la paziente, al fine di cristallizzare siffatti risultati introduceva ricorso per accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’art. 696 bis cpc, avendo avuto certezza che l’errata lettura del vetrino del PAP Test del 2009 aveva comportato per lei un grave ritardo nella cura della patologia della quale era risultata affetta.

L’esito dell’ATP confermava la refertazione dei due vetrini relativi ai PAP Test già effettuata dal Consulente tecnico di parte e concludeva che : “L’esame dei preparati citologici eseguiti nel 2009 e nel 2011, sulla base delle linee guida attualmente, ma anche all’epoca (…) in uso, avrebbero dovuto determinare l’invio della Signora ad esami c.d. di secondo livello quali la colposcopia e biopsia mirata. Questi esami avrebbero potuto diagnosticare l’esatta natura della lesione cervicale”.

Pacifico, pertanto, che i due esami citologici del Pap Test sono stati refertati in modo totalmente errato non contenendo alcun riferimento a “ Lesione squamosa intraepiteliale di basso grado (L -SIL), ma non si esclude una lesione intraepiteliale di alto grado (ASC -H) ” per quanto riguarda quello del 2009, ed ” Esame con anomalie delle cellule epiteliali squamose, sospette per la presenza di un carcinoma “, per quanto riguarda quello del febbraio 2011.

Il CTU, nel corso di supplemento di consulenza, riferisce: “Ad una corretta lettura di tali preparati istologici sarebbe conseguito l’invio allo screening di II livello, ovvero all’esame colposcopico con la biopsia sulla base delle Linee Guida della Gestione della Paziente con Pap -Test anormale. L’esame bioptico verosimilmente avrebbe portato alla diagnosi di neoplasia intraepiteliale con conseguente adeguato trattamento della lesione, ma così non fu. Una tempestiva diagnosi avrebbe consentito, nel caso si trattasse di neoplasia intraepiteliale cervicale di grado I, di inviare la paziente ad un ulteriore controllo colposcopico da eseguirsi dopo sei mesi, oppure concordare il trattamento della neoplasia mediante conizzazione o intervento di isterectomia qualora fosse stato individuato istologicamente un grado II o III. A ben vedere dunque una corretta lettura del pap test avrebbe certamente offerto la possibilità di diagnosticare precocemente la neoplasia potendo così ricorrere a varie strategie terapeutiche che, ad ogni modo avrebbero verosimilmente garantito una tempestiva ed efficace eradicazione della neoplasia. Appare ancora una volta necessario ricordare che nel 2009 verosimilmente la lesione neoplastica era confinata a livello epiteliale; il ritardo diagnostico ha consentito la progressione della neoplasia, che al momento della effettiva diagnosi, avvenuta a circa un anno e mezzo di distanza, manifestava un interessamento extrauterino (stadio IIB secondo FIGO ), e che nell’arco di ulteriori due mesi coinvolse la parete pelvica e determinò l’occlusione ureterale con conseguente idronefrosi (stadio IIIB secondo FIGO)”.

Riguardo il comportamento professionale delle Ginecologhe, il CTU ha sottolineato: “la dr.ssa G. aveva richiesto, all’esito della visita ginecologica, il PAP Test dell’ottobre 2009 e che l’esito errato dello stesso non avrebbe mai potuto imporre (nell’anno 2009) alcuna richiesta di approfondimento, così come l’errata refertazione del vetrino del febbraio 2011. La Ginecologa in questione non aveva evidenze tali che le consentissero di richiedere gli approfondimenti che si sarebbero resi necessari se i vetrini di PAP Test fossero stati letti in modo corretto conformemente all’acclarato risultato in sede di CTU. Va di conseguenza che alcun comportamento non conforme alle linee guida ovvero alle regole di correttezza e professionalità che le condizioni palesi della paziente ponevano è riconducibile all’attività professionale della Ginecologa, con la conseguenza che il suo comportamento non ha rilevanza causale alcuna sulla diagnosi e cura della grave patologia”.

Anche con riferimento all’attività professionale svolta dalla seconda Ginecologa, il CTU ha valutato il comportamento dalla stessa tenuto nell’unica occasione, nell’anno 2010, “l’operato della Dott.ssa D., relativo alla visita specialistica del 2010, è da dire che lo stesso appare assolutamente coerente con le buone pratiche cliniche e con l’osservanza delle leges artis; infatti si tratta di una consulenza occasionale dovuta all’insorgere di “leucorrea e prurito vaginale”. L’esame obiettivo eseguito risulta puntuale ed approfondito, l’ecografia pelvica non evidenziò anomalie di rilievo e le perdite ematiche risultarono modeste tanto da non allarmare ulteriormente la specialista. Coerente a tali evidenze risulta il sospetto diagnostico della specialista di una infezione micotica o parassitaria a cui conseguì la prescrizione farmacologica opportuna. Successivamente, posto il persistere della sintomatologia dolorosa a livello pelvico la paziente fu sottoposta ad ulteriori visite specialistiche (visita urologica, visita chirurgica ed esecuzione di esame colonscopico) che non svolsero nel caso di specie alcun ruolo, per cui superfluo appare soffermarsi nella loro disamina”. Le conclusioni sul piano dell’efficienza causale di detto comportamento sulle condizioni della paziente sono identiche a quelle assunte per la prima Ginecologa, dottoressa G, e precisamente ininfluenti sul decorso della patologia sofferto. Entrambe le professioniste hanno tenuto un comportamento corretto, adeguato e scrupoloso sulla base delle evidenze emerse dalle visite e soprattutto dai referti dei PAP TEST.”

Accertato, dunque, che la causa delle condizioni che hanno portato al decesso della paziente sia da ricondursi alla errata lettura dei vetrini del PAP Test da parte del laboratorio analisi, il Tribunale passa al vaglio l’entità dei danni derivanti dall’errore medico.

In primo luogo non può essere risarcito il danno da perdita di chance di migliore, o maggiore, aspettativa di vita, avendo l’errata diagnosi citologica compromesso le aspettative di vita della donna e ciò alla luce del fatto che il decesso non rende in alcun modo possibile la valutazione proprio della aspettativa di vita.

La Corte di Cassazione con la sentenza n.28993/2019 ha precisato: ” la domanda giudiziale che configuri una ipotesi di danno da perdita di chance di sopravvivenza ripeta il suo autonomo fondamento (e l ‘autonomia del conseguente petitum processuale) in ragione della incertezza sul suo evento morte ” ……”quelle stesse pretese si tramutano in domanda di risarcimento tout court del danno da perdita parentale, ove sia certo e dimostrabile sul piano eventistico che la condotta illecita abbia cagionato l’anticipazione dell ‘evento fatale. Proprio in siffatta ipotesi, infatti, costituisce un evidente paralogismo l’evocazione della fattispecie della chance (in quanto fondato sull ‘equivoco lessicale indotto dalla locuzione perdita della possibilità di vivere meglio e più a lungo), giacchè qui l’evento di danno è specularmente costituito dalla perdita anticipata della vita e dall ‘impedimento a vivere il residuo tempo in condizioni migliori e consapevoli “.

Neppure risarcibile è il danno da lucida agonia (o catastrofale), poiché secondo il Tribunale, ”designando detta locuzione il danno consistente nella sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine “, ovvero una situazione nella quale si trova, almeno di regola, la vittima di lesioni fisiche alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, la quale subisce pertanto una sofferenza di massima intensità , deve ritenersi che la sofferenza patita dalla paziente, giacchè protrattasi per oltre 8 anni per tale ragione non può esser ricondotta in detta configurazione di ipotesi di danno”.

La paziente ha diritto al risarcimento del danno biologico terminale, e in considerazione della sofferenza subita nel decorso del tempo dall’anno 2011 fino al suo decesso, nel corso del quale ha subito numerosi interventi chirurgici e terapie invasive e dolorose (chemioterapia e radioterapia) , vi è anche il diritto al danno morale terminale, tenuto conto della giovane età della stessa, deceduta all’età di 37 anni.

Per la quantificazione dei danni vengono utilizzate le Tabelle milanesi, addivenendosi all’importo di euro 671.681,00 per danno biologico terminale, con incremento del 25% a titolo di danno morale terminale, per complessivi euro 839.600,00.

Per il ristoro dei danni la paziente ha chiamato in causa il Laboratorio Analisi e la Biologa esecutrice della lettura dei vetrini citologici.

Al riguardo il Tribunale rammenta i principi della Legge Gelli-Bianchi laddove stabilisce che “la struttura sanitaria o socio sanitaria pubblica o privata, la quale, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria risponde ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle condotte dolose o colpose dai medesimi poste in essere, anche nel caso in cui tali sanitari siano stati scelti dal paziente ed anche se gli stessi non sono dipendenti della struttura sanitaria” .

Ergo, sono obbligati al pagamento della somma risarcitoria il Laboratorio Analisi e la Compagnia di assicurazione.

Pacifica, inoltre, la responsabilità concorrente della Biologa nella causazione dell ‘evento dannoso che risponde del medesimo evento a titolo di responsabilità extracontrattuale.

Concludendo il Laboratorio Analisi e la Biologa sono tenuti, in solido, al risarcimento dei danni subiti dalla paziente, con manleva da parte della Compagnia assicuratrice.

La Compagnia, inoltre, viene condannata al pagamento delle spese processuali sostenute dall’attrice, comprese la consulenza tecnica preventiva e quella espletata nel giudizio di merito.

Avv. Emanuela Foligno

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