Il diritto all’abitazione non può essere qualificato come assoluto, dovendo lo stesso essere comparato con l’interesse della collettività all’effettiva applicazione della normativa in materia edilizia

La vicenda

Con ordinanza pronunciata nel giugno del 2019, il Tribunale di Brindisi rigettava, quale giudice dell’esecuzione, la richiesta di sospensione e revoca dell’ordine di demolizione, promossa in favore dell’interessato, ed emessa a seguito dell’intervenuta irrevocabilità della sentenza che lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 44, lett. b), TU Edilizia. Contro tale ordinanza l’uomo ha proposto ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, denunciando col primo motivo la violazione dell’art. 8 Cedu ed all’art. 32 Cost., sul diritto all’abitazione, in quanto nel predetto immobile vivevano sia il proprio nucleo familiare che quello del suocero e che non disponevano né di un altro alloggio, né di risorse economiche per garantirsi un’altra abitazione.

I motivi di ricorso

L’ordine di demolizione avrebbe comportato seri danni per la porzione regolarmente assentita, nonché danni irreparabili agli impianti elettrico, di gas-metano e acquedotto, i quali attraversavano senza soluzione di continuità l’intero immobile.

Ma per il tribunale pugliese, la denunciata violazione non vi sarebbe stata in quanto la demolizione avrebbe riguardato solo un ampliamento e non l’intero immobile.

A detta del ricorrente, invece, il diritto all’abitazione avrebbe dovuto essere valutato in concreto e non in via meramente formale o astratta e nel caso di specie, il Tribunale aveva omesso di valutare che nell’immobile abitavano due nuclei familiari composti da 5 adulti e 2 bambini e che, pertanto, la demolizione della parte più consistente dello stesso immobile avrebbe privato quelle persone del diritto di disporre di una abitazione rispondente alle condizioni minime di tutela della dignità umana stabilite dall’art. 8 Cedu.

La Corte di Cassazione (Terza Sezione Civile, n. 844/2020) ha rigettato il ricorso perché infondato.

“Il diritto all’abitazione – hanno affermato i giudici della Suprema Corte –  è riconducibile alla categoria dei diritti sociali i quali trovano legittimazione nell’art. 3 Cost., comma 2: il principio di uguaglianza non viene garantito solo in senso formale (art. 3 Cost., comma 1), ma anche in senso sostanziale sicché, mediante l’eliminazione degli ostacoli sociali ed economici, viene garantito al singolo il godimento dei diritti fondamentali collegati allo sviluppo della propria personalità. La riconducibilità del diritto all’abitazione agli artt. 2 e 3 Cost., sebbene manchi un riferimento espresso e testuale “diritto all’abitare”, comporta il dovere dello Stato di intervenire positivamente per dare concreta attuazione al precetto costituzionale”.

Il diritto all’abitazione ha assunto rilievo anche a livello internazionale. In particolare, è stato oggetto anche dell’attenzione della Corte EDU.

Sul tema assume innanzitutto rilievo l’art. 1 Prot. 1 Cedu posto a tutela del diritto di proprietà. Tale articolo, secondo la giurisprudenza della medesima Corte, sarebbe costituito da tre norme: 1) la prima, di carattere più generale (comma 1), enuncia il principio del rispetto del diritto di proprietà; 2) la seconda regola (sempre comma 1) le ipotesi di privazione della proprietà, le quali vengono subordinate alla sussistenza di determinate condizioni; 3) l’ultima, (comma 2) concerne invece la regolamentazione dell’uso dei beni riconosciuta in capo allo Stato nell’ottica del perseguimento dell’interesse generale. Difettando una precisa definizione del termine “proprietà”, esso ha assunto un significato autonomo rispetto a quello riconosciuto nei diversi ordinamenti statali, venendo riconosciuta la tutela anche a situazioni di mero fatto, ergo a prescindere dalla effettiva titolarità del diritto (caso Beyeler c. Italia).

La Corte di Cassazione non ha comunque mancato di marcare i confini operativi della giurisprudenza comunitaria.

In particolare, richiamando la sentenza della Corte Edu Sud Fondi c. Italia si è escluso che la demolizione dell’opera abusiva possa legittimamente avvenire solo ove il condannato abbia a disposizione un alloggio alternativo, ovvero qualora a ciò abbia provveduto lo Stato, non potendosi riconoscere un diritto assoluto all’inviolabilità del domicilio e, dunque, dell’abitazione (art. 8 Cedu), tale da precludere l’esecuzione dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva. Ciò che invece hanno dichiarato indefettibile i giudici di Strasburgo è una valutazione, caso per caso, finalizzata al bilanciamento del diritto del singolo alla tutela dell’abitazione e dell’interesse dello Stato ad impedire l’esecuzione di interventi edilizi in assenza di un regolare titolo abilitativo, ossia in altri termini gli interessi tutelati mediante la concreta applicazione della normativa in materia edilizia e territorio.

Diritto di abitazione e ordine di demolizione: quale equilibrio?

Alla luce della giurisprudenza sovranazionale, la Corte di Cassazione ha affermato che l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile abusivo non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all’art. 8 CEDU, posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto “assoluto” ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non viola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, ma afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato e a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio (Cass., Sez. 3^, 20 agosto 2019, n. 36257; Cass., Sez. 3^, 8 aprile 2019, n. 15141).

Tanto premesso, tenuto conto della giurisprudenza nazionale, nonché di quella sovranazionale, è stato affermato che il diritto all’abitazione non può essere qualificato come assoluto, dovendo lo stesso essere comparato con l’interesse della collettività all’effettiva applicazione della normativa in materia edilizia, e dovendo ritenersi che l’ordine di demolizione non costituisce una sanzione penale, bensì una misura funzionalmente diretta al ripristino dello status quo ante, la cui non esecuzione è limitata ad ipotesi specificamente individuate dal legislatore (come la c.d. fiscalizzazione ex art. 34 TU Edilizia).

La decisione

Nel caso in esame, la demolizione ordinata dal tribunale pugliese non è stata ritenuta sproporzionata rispetto all’interesse del singolo, tenuto conto, come rilevato dal giudice dell’esecuzione, che essa concerneva unicamente una porzione dell’opera, ossia un suo ampliamento, e non la sua interezza (“gli abusi edilizi accertati riguardano unicamente interventi di ampliamento rispetto al fabbricato preesistente… tale unità immobiliare originaria…è composta da 5 vani; conseguentemente l’ordine di demolizione impartito dall’a.g., siccome riguardante solo gli interventi in ampliamento, non pregiudica affatto il diritto all’abitazione del [ricorrente] , che continuerebbe legittimamente ad esplicarsi rispetto al fabbricato preesistente, non interessato dall’ordine di demolizione”).

Per queste ragioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Avv. Sabrina Caporale

Leggi anche:

L’OPERA ABUSIVA NON DEMOLITA ENTRA DI DIRITTO NEL PATRIMONIO DEL COMUNE

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui