Il danneggiato nel 2015 citava a giudizio, presso il Tribunale di Milano, conducente, proprietario e assicurazione del camion Iveco responsabile dell’incidente stradale che gli procurava serie lesioni fisiche.
I due giudizi di merito escludono i presupposti per il riconoscimento della personalizzazione del danno e la vicenda si spinge in Cassazione che conferma la decisione di secondo grado (Cassazione civile, sez. III, dep. 31/10/2023, n.30293).
La vicenda giudiziaria
Il Tribunale di Milano dichiarava la esclusiva responsabilità dell’incidente in capo al conducente del camion, accertava un danno permanente biologico superiore al 60% e liquidava oltre 500.000 euro. Da tale importo venivano detratti euro 262.002,32 quale importo corrisposto dall’Inail, “comprensivo dell’indennità da temporanea, degli acconti e ratei già pagati e del valore capitale della rendita, sulla base di una valutazione del danno da invalidità permanente nella misura del 40% sulla base dei criteri propri dell’Istituto”, avendo l’istituto agito in surroga nei diritti dell’attore ai sensi dell’art. 1916 c.c.
Con sentenza n. 3165/2021, depositata il 2 novembre 2021, la Corte d’Appello di Milano ha rigettato entrambi i contrapposti gravami interposti, in via principale dal danneggiato, in relazione alla quantificazione dei danni e, in via incidentale, dalla Zurich assicurazioni che si doleva della ritenuta esclusiva responsabilità dell’incidente del conducente dell’autocarro.
Il giudizio di Cassazione
Il danneggiato lamenta che la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato che l’utilizzo delle Tabelle milanesi per la liquidazione del danno fosse di per sé sufficiente a liquidare il danno sia temporaneo che permanente, che le conseguenze allegate non sarebbero state idonee ad integrare alcuna peculiarità utile per la personalizzazione e che sarebbe mancata una “specifica attività descrittiva” delle stesse, nonostante avessero formato oggetto di specifici capitoli di prova per testi i quali non erano stati ammessi e nonostante la presenza di numerose circostanze che avrebbero dovuto condurre al ricorso al sistema presuntivo.
I Giudici di Appello, così come quello di primo grado, hanno ritenuto esclusa la personalizzazione del danno, osservando in particolare che “le conseguenze da invalidità lamentate (attività di svago rinunciate quali il calcetto, il trekking e la lettura) erano riconducibili a quelle standard derivanti da un evento lesivo simile e non indicavano alcuna peculiarità tale da incidere in maniera specifica sugli aspetti dinamico relazionali personali”.
Il danneggiato, afferma la Corte d’Appello, non ha riportato negli atti difensivi, con una specifica attività descrittiva, tutte le sofferenze di cui ha preteso la riparazione e le indagini peritali non consentono di discostarsi da quanto affermato dal Tribunale di Milano.
Il danneggiato sostiene di avere adeguatamente allegato e provato nel giudizio di primo grado che la lesione patita a seguito dell’incidente è stata di particolare gravità sia per le modalità (“importante tumefazione e deformazione del volto… evidenza di sfacelo del massiccio facciale”), sia per la lunghezza del periodo di convalescenza (stimato dal C.T.U. in 339 giorni di invalidità, di cui 99 di ricovero ospedaliero, caratterizzato da una sofferenza psicofisica indicata in 5/5), sia per la sottoposizione a ben sette interventi chirurgici.
La censura non viene accolta dalla Suprema Corte
Alcune delle circostanze cui è riferita la doglianza (passione per la lettura, trekking, calcetto) risultano in realtà espressamente considerate e giudicate irrilevanti ai fini in questione.
Le altre circostanze indicate dal danneggiato a seguito dell’incidente (vertigini e cefalea con dolori acuti; deficit visivi; depressione; maggiore penosità del lavoro; difficoltà di movimentazione dei muscoli facciali, limitazioni nella alimentazione; danno estetico), costituiscono asserite menomazioni che devono formare oggetto, in un senso o nell’altro, non di prova per testi ma di accertamento e valutazione medico-legale; esse devono dunque presumersi anche poste ad oggetto, con esiti valutativi in un senso o nell’altro, dalla C.T.U. espletata nel corso del giudizio di primo grado (che non è stata censurata).
I Giudici di merito hanno correttamente fatto riferimento al principio, ormai consolidato, secondo cui “in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato negli uffici giudiziari di merito (nella specie, le tabelle milanesi) può essere incrementata, con motivazione analitica e non stereotipata, solo in presenza di conseguenze anomale o del tutto peculiari (tempestivamente allegate e provate dal danneggiato), mentre le conseguenze ordinariamente derivanti da pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età non giustificano alcuna personalizzazione in aumento“.
Il grado di invalidità
Sul piano concettuale, la S.C. rammenta che il grado di invalidità permanente indicato da un medico legale esprime in misura percentuale la sintesi di tutte le conseguenze ordinarie che una determinata menomazione si presume riverberi sullo svolgimento delle attività comuni ad ogni persona; in particolare, le conseguenze possono distinguersi in due gruppi:
– quelle necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare grado di invalidità;
– quelle peculiari del caso concreto che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili.
Tanto le prime, quanto le seconde, costituiscono forme di manifestazione del danno non patrimoniale aventi identica natura che vanno tutte considerate in ossequio al principio dell’integralità del risarcimento, senza, tuttavia, incorrere in duplicazioni computando lo stesso aspetto due o più volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni.
Nel concreto, il danneggiato lamenta la asserita mancata considerazione dei gravi riflessi sulla vita relazionale in termini inidonei a rappresentare l’esistenza di quelle sofferenze peculiari che giustificherebbero una personalizzazione dai valori punto risarcitori standard fissati nelle tabelle in uso.
L’impossibilità di continuare a praticare attività di svago o sportiva (salvo il caso che la stessa risulti particolarmente qualificata, ad es. per lo svolgimento a livello professionistico) è conseguenza da considerarsi abbastanza comune e ordinaria, derivante da invalidità di grado elevato e, in quanto tale, non necessita di “personalizzazione”.
Avv. Emanuela Foligno