L’Azienda Ospedaliera Federico II di Napoli viene chiamata a rispondere del decesso del paziente causato da errore diagnostico.
I fatti
Ciò che viene contestato alla Azienda Ospedaliera è un errore diagnostico e terapeutico che avrebbe peggiorato notevolmente la qualità della vita del paziente dal mese di ottobre del 2003 al gennaio del 2005, impedendo di rallentare l’avanzamento della neoplasia da cui era affetto.
Nello specifico, in data 6/10/2003, a causa di forti dolori alla regione mandibolare destra, veniva eseguita una ecografia presso il centro “San Domenico” con la quale, il successivo 8/10/2003, a visita presso l’Azienda Universitaria Ospedaliera Federico II, veniva consigliato il ricovero per gli accertamenti del caso.
Il ricovero si protraeva dal 20 al 23/10/2003 e veniva confermata la diagnosi di “ingresso di scialolitiasi sottomandibolare”, vale a dire di formazione di calcoli nella ghiandola salivare sottomandibolare, seguiva la dimissione in attesa di intervento chirurgico.
Seguiva, dal 6 al 19/11/2003, un altro ricovero presso la medesima Azienda Ospedaliera durante il quale avveniva l’intervento chirurgico di scialoadenectomia sottomandibolare destra con successiva diagnosi istologica di “scialoadenite cronica con marcata fibrosi intra e perilobulare e presenza di tessuto linfoide follicolare tipo Mart”.
I numerosi ricoveri
Purtroppo i dolori del paziente incrementavano, divenendo lancinanti, senza trovare sollievo nonostante l’assunzione degli antidolorifici che venivano prescritti ad ogni successivo consulto presso il reparto maxillo-facciale dell’Azienda la quale, ancora in data 14/01/2004, ascriveva la sintomatologia a calcolosi sottomandibolare.
Il successivo 23/03/04 i sanitari della Federico II, considerata la mancata attenuazione delle sofferenze del paziente, decidevano di effettuare un nuovo esame ecografico alle ghiandole salivari ed alla tiroide il cui referto evidenziava la “presenza di tumefazioni linfonodali oltre a numerosi noduli non maligni alla tiroide come dimostrato dall’esame ago-aspirato”.
Seguiva, in data 1/07/04, altro ricovero urgente per “ascesso sottomandibolare”. In seguito il paziente decideva di ricoverarsi presso il Policlinico “G.B. Rossi” di Verona dove iniziava ad ipotizzarsi la recidiva di un “maltoma” ricomparso dopo l’intervento chirurgico del 2003 che ne aveva eliminato solo in parte la proliferazione.
L’errore diagnostico
Nell’ottobre del 2004, dopo l’ennesimo ricovero presso la Federico II, il paziente si recava presso l’ospedale San Paolo di Bari che chiedeva all’Azienda Federico II l’invio dei vetrini relativi all’esame istologico effettuato dopo l’intervento chirurgico del novembre del 2003 per sottoporli a revisione presso l’istituto S. Orsola Malpighi di Bologna il quale evidenziava la presenza di un “infiltrato linfoide reattivo”.
Durante tale ricovero, emergeva l’esistenza di metastasi tumorali ai polmoni, la cui origine era da individuare nella ghiandola sottomandibolare destra, con conseguente intervento chirurgico di resezione delle aree polmonari malate ed avvio di terapie chemio e radio per fronteggiare l’effettiva patologia di natura neoplasica da cui l’istante risultava affetto e che un consulto effettuato nel marzo del 2005 presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano accertava essere un carcinoma adenoidocistico.
Il paziente decedeva l’11 giugno 2006.
Il giudizio
Il Tribunale di Napoli, ritenuto il ritardo diagnostico ascrivibile a colpa dell’Azienda Ospedaliera Universitaria e ravvisata una corresponsabilità nella misura del 30% del paziente, per aver tenuto una condotta scarsamente collaborativa, ha riconosciuto agli eredi la somma di 100.000 euro a titolo di risarcimento del danno biologico e morale subito dal loro dante causa per la perdita della possibilità di curare tempestivamente e più efficacemente la malattia che lo aveva colpito e per le sofferenze fisiche e psichiche correlate alla consapevolezza che tali pregiudizi erano scaturiti dal non corretto operato dei sanitari occupatisi della sua condizione.
Il secondo grado conferma tale statuizione rideterminando gli importi condannando l’Azienda ospedaliera al pagamento in favore degli eredi del de cuius della minor somma complessiva di 47.607,60 euro, con compensazione delle spese del doppio grado tra le parti in ragione della metà.
La vicenda viene posta al vaglio della Corte di Cassazione
Attraverso una serie di censure gli eredi lamentano il vizio di ultrapetizione poiché in assenza di una specifica richiesta delle parti, con la decisione impugnata, la Corte d’appello ha rideterminato il quantum del risarcimento danni spettante agli eredi rispetto a quello liquidato in primo grado. Oltre alla mancata applicazione del criterio equitativo utilizzato in primo grado.
Tutte le doglianze vengono rigettate (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 20 marzo 2025, n. 7458).
Innanzitutto, non vi è stato alcun difetto di ultrapetizione. Le ragioni costitutive della domanda fatto costitutivo sono state chiaramente individuate dall’atto introduttivo del giudizio nei danni subiti in dipendenza di un errore diagnostico e terapeutico che aveva peggiorato sensibilmente la qualità della vita del danneggiato dal mese di ottobre del 2003 al gennaio del 2005 e che aveva impedito di rallentare efficacemente l’avanzamento della neoplasia da cui era affetto, con allegazione dei fatti storici posti a fondamento della domanda.
La responsabilità della Federico II è stata ribadita dalla Corte d’appello sulla base dei medesimi fatti costitutivi del diritto al risarcimento allegati nell’atto introduttivo in conformità col principio ormai pacifico secondo cui il “Giudice d’appello ha il potere-dovere di interpretare e qualificare la domanda in modo diverso rispetto a quanto prospettato dalle parti o ritenuto dal Giudice di primo grado, a condizione che i fatti costitutivi della diversa fattispecie giuridica oggetto di riqualificazione coincidano o si pongano, comunque, in relazione di continenza, con quelli allegati nell’atto introduttivo, incorrendo, altrimenti, nella violazione del divieto di ultrapetizione”.
Difatti i Giudici di secondo grado hanno adeguatamente spiegato le ragioni della diversa interpretazione dei medesimi fatti costitutivi della domanda, in virtù delle quali è stata rideterminata la quantificazione del risarcimento del danno, escludendo la sussistenza di quello da perdita di chance.
La perdita di chance
La Corte d’appello, sulla base delle risultanze dalla esperita CTU medico-legale, ha correttamente ritenuto che in materia di perdita di chance “il Giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una che dell’altra, muovendo dalla preventiva indagine sul nesso causale tra condotta e evento, secondo il noto criterio civilistico del “più probabile che non”, per poi procedere all’identificazione dell’evento dannoso la cui riconducibilità al concetto di “chance” postula una incertezza del risultato sperato e non già il semplice mancato raggiungimento del detto risultato nel qual caso non si potrà parlare di “chance perduta”, venendo in esame un diverso evento di danno, accertato nelle sue conseguenze che dovrà essere integralmente risarcito”.
Per quanto riguarda il danno da perdita del rapporto parentale i Giudici di merito hanno seguito l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance di sopravvivenza proposta iure proprio e iure hereditario dai parenti della vittima postula un’incertezza sull’anticipazione o meno dell’evento morte. La stessa pretesa si traduce invece tout court in domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale ove sia certo, o comunque altamente probabile, che la condotta illecita ha determinato un’anticipazione dell’evento luttuoso non potendosi in tal caso parlare di perdita di chance in quanto il danno è costituito da un lato dalla perdita anticipata della relazione parentale e, dall’altro, dall’impedimento per il de cuius a vivere il proprio tempo residuo in condizioni migliori”.
La condotta dei sanitari e l’errore diagnostico
La condotta dei sanitari ha determinato una significativa riduzione della durata della vita della vittima e una peggior qualità della stessa, per tutta la sua minor durata.
Ergo, i medesimi devono rispondere dell’evento di danno costituito dalla perdita anticipata del legame parentale e della peggior qualità della vita residua del paziente senza poter parlare di danno da perdita di chance stante la certezza, o comunque la rilevante probabilità, di aver potuto vivere meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche.
Il criterio di equità applicato dal primo Giudice nella liquidazione del danno non poteva trovare applicazione essendo stati individuati dal CTU sia i postumi permanenti subiti dal de cuius per effetto del ritardo diagnostico, in assenza del quale egli avrebbe potuto vivere parte della sua esistenza senza la neoplasia e senza le sofferenze causate dalla sua diffusione, quanto la durata di detta invalidità permanente consolidatasi nel lasso di tempo compreso tra l’ottobre del 2004 e la morte dell’uomo, avvenuta l’11/06/09, la quale non è stata però causata dal ritardo diagnostico, che l’ha solo accelerata, ma dalla malattia.
Avv. Emanuela Foligno