Dovrà rispondere della morte di un proprio dipendente esposto per anni, ad amianto

Per i giudici della Cassazione è irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto.

La vicenda

Il 2 luglio 2015 la Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno biologico e morale proposta dagli eredi del lavoratore morto a causa di un carcinoma contratto nello svolgimento delle sue mansioni.

Nella specie, la corte territoriale ha affermato la responsabilità del datore di lavoro in relazione alla morte del suo dipendente che aveva svolto mansioni di operaio specializzato elettromeccanico ed era perciò stato a contatto con materiali di amianto (motori ed apparati elettrici), all’epoca (1960-1990) usati ampiamente per la coibentazione dei componenti e dei ricambi dei veicoli, rilevando che fosse già noto, in quegli anni, il rischio collegato alle fibre di amianto.

La Sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n. 15561/2019) ha ricordato che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.

Siffatto principio è stato più volte applicato dalla giurisprudenza, con riferimento al rischio da esposizione all’amianto.

Al riguardo è stato anche affermato che “qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di aver adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel D.Lgs n. 277/1991, successivamente abrogato dal D.Lgs. n. 81/2008”.

Per i giudici della Cassazione la sentenza impugnata era conforme a tali principi, rilevando che l’esposizione all’amianto era noto all’epoca dei fatti, come dimostrato dalla presenza di pubblicazioni scientifiche già all’inizio del secolo scorso che consideravano pericolose le lavorazioni collegate all’amianto sia dall’adozione di normativa europea (Regolamento n. 1169 e direttiva n. 477 del 1983) che faceva riferimento al rischio di inalazione di polveri di amianto.

A fronte di tale situazione, il dovere del datore di lavoro era di escludere comunque l’esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l’adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie.

La redazione giuridica

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