Gravità della patologia ostruttiva coronarica e condanna penale per omicidio colposo al medico (Cassazione penale, sez. IV, dep. 14/06/2022, n.23140).
Gravità della patologia ostruttiva coronarica: condannato il medico per omicidio colposo.
La Corte d’Appello di Palermo, in data 10 maggio 2021, ha riformato la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Agrigento con la quale la dottoressa era stata condannata in relazione al delitto di omicidio colposo per il decesso del paziente.
La paziente, lamentando dolore toracico con irradiazione al braccio sinistro, si era presentata in serata presso il Pronto Soccorso dell’ospedale, ove il medico di turno faceva eseguire un’ECG; alle ore 20,00 subentrava nel turno altro sanitario, la dottoressa imputata, la quale, dopo avere brevemente esaminato la documentazione medica, rassicurava i parenti e disponeva l’esecuzione di una TAC encefalo e una radiografia toracica.
Dopo l’esame della TAC, la paziente si sentiva male e l’imputata veniva chiamata in radiologia, ove la paziente era in arresto cardiaco; tuttavia, nonostante le manovre di rianimazione cardiopolmonare, la donna decedeva alle ore 21.40.
La responsabilità penale del medico in primo grado veniva argomentata principalmente sulle valutazioni dei consulenti del P.M. che denunciavano l’atteggiamento negligente e imperito dell’imputata, la quale, in luogo di avviare la paziente al reparto di cardiologia, avrebbe dovuto valorizzare gli accertamenti cardiologici già in corso avviando la paziente all’UTIC, avuto riguardo alla sintomatologia della donna. Tale comportamento, secondo i consulenti, avrebbe potuto salvare la paziente.
Nel corso del giudizio d’appello veniva disposta altra perizia medica, che, pur confermando il comportamento della dottoressa negligente e imperito, evidenziava che, alla luce della gravità della patologia ostruttiva a carico delle coronarie della paziente, emersa all’esito dell’esame autoptico e risultata essere la causa del decesso, quand’anche tutti gli interventi necessari fossero stati compiuti tempestivamente e a regola d’arte, le possibilità di sopravvivenza della paziente non avrebbero superato il 30-35%. Su tali basi quindi, pur confermando la rimproverabilità della condotta della dottoressa, la Corte di merito ha concluso che essa non costituì un antecedente rilevante sotto il profilo del decorso causale che condusse all’exitus.
Le parti civili impugnano la decisione.
Il ricorso consta di un unico motivo, nel quale si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione, qualificata anzi come motivazione apparente, a proposito dell’accertamento del nesso di causalità tra la condotta dell’imputata e l’evento: richiamate le valutazioni del Tribunale nella sentenza di primo grado e quelle dei Consulenti del Pubblico Ministero, gli esponenti lamentano che sia stato disatteso dalla Corte di merito il dovere di accertare il comportamento alternativo doveroso da parte dell’imputata, che non apprezzava la gravità della patologia e dei sintomi della paziente ed omise di inviare i referti al reparto specialistico, così incorrendo in un errore diagnostico e prolungando per un tempo significativo l’attuazione dei doverosi controlli clinici.
Secondo i ricorrenti, la sottovalutazione del rischio della gravità della patologia e la mancata attuazione delle linee guida hanno pregiudicato la possibilità che la paziente si salvasse, possibilità certamente apprezzabile, considerato che la dottoressa aveva visto il tracciato dell’ECG.
La Suprema Corte ritiene le censure inammissibili.
Lo scostamento della condotta dell’imputata da quella doverosa e’, infatti, confermato dall’iter argomentativo della sentenza impugnata, ove si legge che la sentenza di primo grado risulta “condivisibile per quel che attiene alla ravvisabilità – secondo le linee tracciate in imputazione – di precisi profili di colpa nella condotta tenuta dalla dottoressa, la quale non pose la dovuta attenzione agli accertamenti richiesti ed eseguiti dalla collega del turno precedente, con particolare riguardo all’esame elettrocardiografico, così indirizzandosi verso ipotesi diagnostiche errate”.
I Consulenti affermano al riguardo che “sarebbe bastata la lettura degli accertamenti già prescritti ed eseguiti, per orientare (…) verso un’ipotesi diagnostica circa l’origine cardiaca della sintomatologia”.
Per quanto riguarda la condotta sicuramente inadeguata dell’imputata, di una rilevanza causale ai fini del prodursi dell’evento letale, i ricorrenti nulla dicono, limitandosi a richiamare le opinioni dei consulenti del P.M. di primo grado, secondo i quali in presenza di gravità della patologia ostruttiva, la mortalità operatoria (con intervento di angioplastica o di rivascolarizzazione miocardica) è pari all’1% nei pazienti che, come la vittima, fossero di età inferiore a 60 anni.
Viceversa, il ragionamento controfattuale della Corte d’Appello, basato essenzialmente sulle approfondite considerazioni dei componenti il collegio peritale nominato nel corso del giudizio di secondo grado, appare completo e solidamente argomentato, diversamente da quanto sostenuto dalle parti civili ricorrenti, anche perché risulta rapportato alla specifica e del tutto drammatica gravità della patologia e delle condizioni venutesi a manifestare a carico della paziente.
Il dato decisivo non poteva che essere rappresentato dal completamento del ragionamento controfattuale, in base al quale occorreva trovare una risposta alla formulazione dell’ipotesi di una stretta aderenza del medico di turno alle leges artis, ossia alle indicazioni fornite dalla scienza medica per affrontare simili casi. La risposta è stata fornita dai Consulenti con ampio incedere argomentativo, che la Corte di merito ha condiviso esaminandone approfonditamente i contenuti e concludendo che in una simile condizione, “ove tutti gli interventi necessari fossero stati compiuti tempestivamente ed a regola d’arte, le possibilità di sopravvivenza non avrebbero superato il 30-35%”.
Nel caso di specie, il ragionamento controfattuale dei consulenti nominati in appello, fatto proprio dalla Corte di merito con ampio e logico vaglio critico (dunque non censurabile sotto il profilo della tenuta motivazionale), ha condotto a escludere che, quand’anche la dottoressa avesse osservato scrupolosamente tutti i dettami offerti dalla scienza medica in situazioni del genere, vi fossero serie e concrete probabilità di un esito salvifico di tale condotta ideale.
Per tali ragioni il ricorso viene rigettato.
Avv. Emanuela Foligno
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