Con la sentenza n. 2396 depositata il 4 agosto 2016 il Tribunale di Padova, in persona del dott. Giorgio Bertola, affronta il problema dei contratti bancari privi della firma del rappresentante l’istituto di credito.

Il giudice mostra di non condividere quanto affermato dalla Cassazione, in due recenti pronunce, secondo cui i cd. contratti “monofirma” sarebbero nulli per la mancanza della contemporanea presenza sul medesimo modulo della sottoscrizione sia del cliente che dell’istituto di credito (cfr. Cass. Sez. I 24/03/2016, n. 5919 e Cass. Sez. I 27/04/2016, n. 8395).

Secondo il Tribunale di Padova le su menzionate decisioni del Supremo Collegio rappresentano “un revirement rispetto al consolidato orientamento della giurisprudenza  della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. 1 n. 4564 ud. 01/03/2012 confermata da Cass. Sez. 6-1 n. 17740 ud. 16/06/2015) che non appare condivisibile, sicché si attenderà l’intervento delle Sezioni Unite a composizione del contrasto creato dalla prima sezione, perché non tiene conto da un lato del fatto che nessuna norma richiede la sottoscrizione contestuale, né temporale né materiale, poiché l’art. 117 T.U.B. richiede solo che il contratto, con le sue condizioni, siano pattuite per iscritto”.

E questo è proprio ciò che è accaduto nel caso in esame.

Infatti, il contratto prodotto dalla banca convenuta inizia così “Accusiamo ricevuta della stimata Vostra di pari data che qui integralmente trascriviamo… F.to BANCA …”.

Per il giudice appare evidente dalla lettura di tale documento che gli attori hanno inviato una lettera alla banca convenuta in risposta ad una missiva da loro ricevuta dalla banca che era da lei firmata e che per una mera scelta processuale essi hanno evidentemente deciso di non produrre.

Il primo punto che affronta il Tribunale è il seguente: gli attori detengono o hanno detenuto e hanno smarrito una lettera che la banca convenuta ha inviato loro e per una questione di convenienza processuale hanno deciso di non produrre.

Tanto dimostra però, secondo il Tribunale,  che la banca ha inviato una proposta al cliente che era firmata e che il cliente ha risposto a quella lettera con la sua comunicazione prodotta in giudizio.

Appare quindi evidente che la volontà negoziale si è formata mediante due documenti scritti che rispettano la previsione dell’art. 117 T.U.B., in base al quale la manifestazione di volontà che concorre a formare il contratto deve essere formulata per iscritto a conferma della importanza dell’atto posto in essere.

Inoltre, osserva il giudice che l’art. 1326 c.c. prevede che il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha notizia dell’accettazione della controparte, cosa che il documento prodotto da parte attrice dimostra essere avvenuta in data posteriore rispetto a quella in cui  la banca ha ricevuto il documento de quo.

Il Tribunale di Padova ribadisce che il contratto  è stato stipulato attraverso un modulo predisposto dalla stessa banca convenuta  e, pertanto,  “affermare che la mancata apposizione contestuale sul medesimo foglio della sottoscrizione di entrambe le parti (in particolare di quella della banca) di una firma che è invece il frutto del formarsi della volontà, già documentalmente evidente, porterebbe alla nullità di un rapporto durato quasi dieci anni continuativi appare connaturarsi anche per una violazione della buona fede contrattuale posta in essere dai correntisti che lamentano, solo ora che la banca agisce per il recupero del credito messo a disposizione nel corso del decennio e non restituito, una nullità che non sussiste”.

Da tanto discende, secondo il Tribunale, che gli attori, dopo aver impostato la causa sulla circostanza che i contratti scritti non vi fossero, nel momento in cui la banca li ha prodotti non hanno disconosciuto la loro sottoscrizione, lasciando intendere con il loro comportamento processuale di aver intrapreso il giudizio nella speranza che l’istituto avesse smarrito i documenti comprovanti il sorgere del loro rapporto dopo che per dieci anni avevano beneficiato del credito messo loro a disposizione dall’istituto di credito.

La condotta degli attori va, secondo il Tribunale,  evidentemente censurata in quanto contraria ai canoni di buona fede contrattuale e lambisce i limiti della malafede processuale sanzionata dall’art. 96 c.p.c..

Sulla base di tali argomentazioni il Tribunale di Padova ha rigettato le domande attoree perché infondate.

 

Avv. Maria Teresa De Luca

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