“Nella modalità dell’avere il tempo diviene il nostro dominatore”.
Abbiamo voluto esordire con una celebre frase di E. Fromm per sottolineare come il tempo sia ormai la moneta della nostra vita, anche nel momento estremo in cui tutto finisce. Ed infatti, nella responsabilità civile “il tempo della morte” diventa elemento condizionante il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale essendo state dettate dalla giurisprudenza delle regole che, pur tuttavia, possono prestarsi a non uniformi applicazioni.
Il tempo, quindi, condiziona il risarcimento del danno da perdita della vita o tanatalogico, espressione, questa, con cui si intende alludere al danno da morte istantanea o quasi, caratterizzato, sulla base di una risalente decisione della Corte Costituzionale (27/10/1994 n° 372), e diversamente dalla lesione del diritto alla salute, da un pregiudizio immediato del diritto alla vita, senza un fase intermedia di malattia.
Un pregiudizio, invero, inidoneo a sostanziare una perdita a carico della vittima, non più in vita, con ciò quindi, dovendosi escludere che un diritto al risarcimento del c.d. danno biologico da morte, possa entrare nel patrimonio del defunto e, quindi, trasmettersi ai suoi eredi.
Tale principio è stato, in pratica, sempre osservato dalla giurisprudenza successiva fino alla nota (e colossale) decisione della Cassazione del 23/01/2014 n° 1361 la quale, in aperto e consapevole contrasto con detto consolidato orientamento, ha affermato l’opposto principio che il danno non patrimoniale da perdita della vita, bene supremo dell’individuo ed altra cosa rispetto al danno alla salute – quest’ultima rappresentando un minus rispetto alla prima, che ne costituisce il presupposto – è oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, garantito in via primaria dall’Ordinamento anche sul piano della tutela civile.
Tale tipo di danno, precisa detta decisione, “ rileva ex sé nella sua oggettività di perdita del principale bene dell’uomo costituito dalla vita, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, e dovendo essere ristorato anche in caso di morte c.d. immediata o istantanea, senza che assumano pertanto, al riguardo, rilievo la persistenza in vita all’esito del danno evento da cui la morte derivi né la intensità della sofferenza interiore patita dalla vittima, in ragione della cosciente e lucida percezione della ineluttabile sopraggiungere della propria fine”, di guisa che la perdita della vita debba ritenersi certamente risarcibile a favore della vittima che la subisce e come tale trasmissibile agli eredi della stessa.
Detta interpretazione è stata sottoposta al vaglio, come è noto, delle Sezioni Unite della Cassazione, sollecitate dalla ordinanza della S.C. 04/03/2014 n° 5056, che aveva rilevato un contrasto giurisprudenziale all’interno delle Sezioni Semplici: un contrasto che, si badi bene, non riguarda la trasmissibilità iure hereditatis del danno derivante dalla morte occorsa a seguito di un apprezzabile lasso di tempo, su cui l’indirizzo giurisprudenziale e pacificamente di segno positivo.
Orbene, le S.U. della Cassazione, con una sentenza pluricommentata (22/07/2015 n° 15350), hanno sancito definitivamente che non è lecito discutere sulla trasmissibilità iure hereditatis di un danno come quello derivante dalla perdita della vita, quando questo avviene immediatamente o dopo un brevissimo tempo dalle lesioni sofferte.
Come si vede il ruolo tempo ( un dittatore nella nostra vita) costituisce un elemento di fondamentale importanza in quanto nella morte prossima all’evento illecito, non può rinvenirsi un soggetto al quale, al momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito poi trasmissibile agli eredi.
Nell’assenza di un soggetto capace di essere centro di imputazione di un interesse risarcitorio, risiede sostanzialmente la ragione della tesi negazionista della S.C. la quale spiega il concetto richiamando la nota affermazione di Epicuro contenute nella lettera sulla felicità a Meceneo. “Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è più la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte, quindi, è nulla per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci.
In buona sostanza, secondo le S.U. sarebbe giuridicamente inconcepibile che dalla vittima venga acquisito un diritto derivante dal fatto stesso della sua morte (“chi non è più non può acquistare un diritto che gli deriverebbe dal non esser più), laddove si consideri la funzione riparatori e non sanzionatoria che il risarcimento danni assume nel nostro sistema civilistico.
Fin qui per quanto riguarda il danno tanatalogico nella stretta, da intendersi più propriamente come danno da perdita della vita che interviene immediatamente od in un brevissimo lasso di tempo dall’evento lesivo.
Da tale “tipologia” si distingue, in dottrina e giurisprudenza il c.d. danno biologico terminale riscontrabile nelle ipotesi in cui l’evento morte interviene dopo un apprezzabile lasso di tempo e che si sostanzia, in pratica, in un danno alla salute che, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità.
Tale danno, che rientra nella sfera patrimoniale della vittima, risulta trasmissibile iure hereditatis.
Eloquente appare, al riguardo, una decisione recente della Cassazione (18/01/2011 n° 1072) secondo cui: “in caso di lesione alla integrità fisica – nella specie conseguente ad un infortunio sul lavoro – che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, è configurabile un danno biologico di natura psichica subito dalla vittima che abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della morte, reclamabile dai suoi eredi, la cui entità dipende non già dalla durata tra l’intervallo tra la lesione e la morte, bensì dalla intensità della sofferenza provocata; il diritto a risarcimento dei danni, in questo caso, è trasmissibile agli eredi (nella specie la S.C. ha confermato il riconoscimento nella misura del 100% del danno biologico terminale, iure successionis, avendo – all’esito della effettuata CTU medica – il lavoratore subito un danno psichico totale per la presenza di un sofferenza e di una disperazione esistenziale di tale intensità da determinare, nella percezione dello infortunato un danno catastrofico, in una situazione di attesa lucida e disperata della estinzione della vita).
In senso conforme alla prima parte della massima v. Cass. 14/02/2007 n° 3260. Nel senso, invece, che il danno debba essere liquidato con riferimento alla durata effettiva della vita del defunto (v. Cass. 30/10/2009 n° 23653) e non a quella probabile in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto (Cass. 18/01/2016 n° 679).
Secondo Cass. 30/01/2006 n° 1877 il danno biologico terminale è un danno nel quale, stante la tendenza ad un aggravamento progressivo, i fattori della personalizzazione debbono valere in modo assai elevato: esso pertanto, non potrebbe essere liquidato attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti nelle notorie tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico e delle invalidità temporanee o permanenti di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso.
Sulle questioni connesse all’aspetto temporale che sostanzia l’ipotesi della ricorrenza, nel caso concreto, di un danno tanatalogico piuttosto che di un danno biologico terminale, secondo il modello classificatorio che sopra si è tentato di definire, sono intervenute di recente altre sentenze della Corte Regolatrice, le quali meritano di essere segnalate in quanto confermano l’indirizzo interpretativo suddetto richiamando, l’importanza del limite temporale entro cui un danno possa rientrare nell’una o nell’altra categoria, con importanti conseguenze soprattutto riferite alla possibilità che il credito risarcitorio possa essere trasmesso agli eredi della vittima.
Intendiamo riferirci alle seguenti pronunce.
Cassazione 03/10/2016 n° 19670, che ha escluso la configurabilità di un danno da perdita della vita trasmissibile agli eredi (ai quali spetterebbe il risarcimento – iure proprio – del c.d. danno parentale, ossia di quel danno (riflesso) conseguente alla lesione della possibilità di godere del rapporto familiare con la persona defunta a favore di un soggetto che era deceduto il giorno dopo il suo ricovero ospedaliero, per un evento riconducibile ad una ipotesi di responsabilità medica..
Cassazione 25/10/2016 n° 21543, la quale ha ribadito che il danno non patrimoniale costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, non è risarcibile jure hereditatis allorché la morte della vittima sia sopraggiunta immediatamente o dopo un lasso brevissimo di tempo dalle lesioni; nella specie dopo poche ore dall’incidente che aveva determinato il ricovero in ospedale per un grave stato di shock.
Nei due casi, dovendo configurarsi una ipotesi di danno tanatalogico, secondo il significato di danno da perdita della vita immediata o prossima all’evento illecito, doveva escludersi la sua risarcibilità iure hereditatis (di poco antecedente e, nello stesso senso, vedasi anche Cass. 23/03/2016 n° 5684).
Nello stesso periodo di tempo intervengono altre due sentenze che affrontano la stessa tematica. Trattasi di Cassazione 17/10/2016 n° 20115 la quale, in un caso in cui la morte della vittima dell’illecito era avvenuta dopo 15 giorni dall’investimento, riconosceva il c.d. danno biologico terminale (entrato nel patrimonio dei congiunti iure successionis), consistente in un danno biologico da invalidità totale temporanea (sempre presente e che si protrae dall’evento lesivo fino a quella del decesso) sommando allo stesso una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico).
Agli eredi della vittima veniva anche riconosciuto il risarcimento del danno parentale (iure proprio).
La seconda sentenza, del 19/10/2016 n. 21060 è stata adottata in un caso in cui la morte della vittima dello illecito era avvenuta dopo 10 giorni.
Ebbene, la Corte Regolatrice riconosce la sussistenza del danno biologico terminale quale pregiudizio della salute che, ancorché temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità poiché conduce a morte un soggetto in un sia pur limitato ma apprezzabile lasso di tempo.
In tale ipotesi, esso deve ravvisarsi come sempre esistente per effetto della percezione, anche non cosciente, della gravissima lesione della integrità personale della vittima nella fase terminale della propria vita (in questo senso, v. anche Cass. 26/06/2015 n° 13198 e Cass. 31/10/2014 n° 23183).
Brevissimo lasso di tempo od apprezzabile lasso di tempo tra l’evento dannoso e il danno della vittima? Non esiste un criterio numericamente certo che indica come debba essere misurato l’elemento temporale di guisa da poter essere ipotizzabile, nel caso concreto, la ricorrenza dell’una o dell’altra figura di danno: tanatalogico o biologico terminale?
Rimane un dilemma.
Certo, sarà compito del Giudice di merito valutare, con il suo prudente apprezzamento, pur osservandosi, ad esempio, che è stato reputato non costituire un breve lasso di tempo, da valutarsi piuttosto in termini di apprezzabilità, il decorso di un solo giorno (v. Cass. 23/02/2004 n° 3549 in motivazione) tra l’evento dannoso ed il sopraggiungere della morte della vittima dell’illecito, mentre in altra decisione (Cass. 20/09/2011 n° 19133) è stato sostenuto che “in tema del risarcimento del danno non patrimoniale quando all’estrema gravità delle lesione segua, dopo un intervallo temporale brevissimo (nella specie due giorni), la morte, non può essere risarcito il danno biologico terminale connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale dal primo ontologicamente distinto, fondato sulla intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro.
Per il rilievo che il danno biologico formale sussiste in tutti i casi in cui, tra il fatto illecito ed il decesso della vittima, sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo tale potendosi astrattamente considerare anche la sopravvivenza della vittima per 24 ore dal fatto causativo (v. Cass. 19/10/2007 n° 21976) o per tre giorni (Cass. 26/06/2015 n° 13198 e Cass. 17/01/2008 n° 870) insufficienti, invece, per Cass. 13/01/2009 n° 458.
A questo punto va segnalato che la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni (nella specie, due ore) se esclude, per le ragioni sopra dedotte, le trasmissibilità iure hereditatis del danno biologico terminale non esclude, viceversa, il risarcimento del danno morale, che può essere conseguentemente fatto valere iure hereditatis, subito dal defunto come danno terminale (si parla a proposito di danno catastrofico) avvertito da chi, in condizioni di lucidità mentale, attende la fine della propria vita che sente irrimediabilmente venir meno (v. Cass. 22/03/2007 n° 6956).
Il danno catastrofico (o catastrofale), in altro senso, non sarebbe altro che quella sofferenza patita dalla persona vittima dell’illecito che, a causa delle lesioni sofferte, nel lasso di tempo (ancorché minimo) compreso tra l’evento che le ha provocate e la morte, miste , alla perdita della propria vita in una condizione (N.B.) di lucidità.
Il danno catastrofico, quindi, a differenza di quello biologico terminale che si consuma con la perdita della vita, si configura con un pregiudizio apprezzabile e risarcibile sotto la specie del danno morale e non sarebbe altro che quello patito dalla vittima che sopravvive per un lasso di tempo, anche minimo, all’incidente, nella coscienza dell’ineluttabilità della propria fine (v. Cass. 13/12/2012 n° 22896), coscienza capace di determinare nel soggetto la piena consapevolezza di quanto sta succedendo e di rendersi conto della gravità del proprio stato. Con la conseguenza che tale danno non è configurabile in capo ad una persona che ad esempio è risultata essere stata in coma dal momento del sinistro fino al decesso (Cass. 16/01/2014 n° 759; Cass. 20/04/2012 n° 6273).
Avv. Antonio Arseni
Foro di Civitavecchia