Non è corretto affermare che l’inadempimento del lavoratore ai propri obblighi, legittimi il datore di lavoro a porre in essere misure che si traducano in veri e propri comportamenti illeciti (straining o mobbing)

La vicenda

Il Tribunale di Macerata aveva accolto la domanda di risarcimento del danno per comportamenti datoriali persecutori e mobbing proposta da un dipendente del Ministero dell’Economia e delle Finanze (poi Agenzia delle Entrate), con riferimento al lavoro di funzionario tributario, dal 1991 al 2003.

La Corte d’Appello di Ancona, ribaltava l’esito del processo, ritenendo che il lavoratore non avesse assolto all’onere della prova con riferimento all’elemento psicologico in capo al datore, ai fini dell’accertamento della sua responsabilità.

Il mobbing sul lavoro

La Corte di Cassazione (Cass. Lavoro, sentenza n. 15159/2019), chiamata a pronunciarsi sulla vicenda ha ripercorso gli orientamenti ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità in materia di mobbing e straining. In particolare, ha affermato che:

– è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684);

– è configurabile lo straining, quale forma attenuata di mobbing, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma comunque con effetti dannosi rispetto all’interessato;

– è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901), fermo restando che si resta al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972).

Restano quindi individuate:

– nelle prime due situazioni (mobbing e straining), fonti di responsabilità che possono derivare non solo da inadempimenti, ma anche da comportamenti interni al rapporto di lavoro che, se singolarmente valutati, potrebbero anche essere astrattamente legittimi o relativi ad altrimenti normali conflitti interpersonali, rispetto ai quali è l’intenzionalità (vessatoria o stressogena) a qualificare l’accaduto come illecito contrattuale diretto (ove il datore di lavoro sia autore o partecipe della dinamica vessatoria) o indiretto (se siano altri lavoratori a tenere il comportamento illegittimo ed al datore si possa imputare di non averlo impedito)

-le predette situazioni si innestano tutte nell’alveo dell’art. 2087 c.c., quale norma di riferimento rispetto alle responsabilità datoriali per danni alla persona del lavoratore derivanti dalla condizioni in cui viene prestato il lavoro e partecipano della dinamica probatoria tradizionalmente propria di tale norma.

Così delineati i tratti essenziali del fenomeno giuridico interessato, i giudici della Suprema Corte hanno ricostruito la vicenda in esame.

In particolare, non è stato condiviso l’assunto secondo cui presupposto della responsabilità datoriale, anche nel pubblico impiego, sia la prova dell’efficienza della prestazione del lavoratore poiché se è vero che l’inadempimento del lavoratore ai propri obblighi legittima il datore di lavoro a porre in essere le opportune misure disciplinari, non è altrettanto ammissibile che ciò sconfini in veri e propri comportamenti illeciti.

Neppure condivisibile è l’asserto secondo cui l’intenzionalità rilevante rispetto alle figure di mobbing o straining, sia solo quella che si radichi in una privata ostilità tra i superiori ed il lavoratore, in quanto “non ha alcun rilievo fondante, rispetto all’an della responsabilità, quale sia l’origine motivazionale dei comportamenti, ancora in ipotesi, illegittimi, del datore di lavoro, essendo sufficiente il manifestarsi, dal punto di vista del coefficiente soggettivo e come incidentalmente si rileva nel contesto del quarto motivo, il ricorrere di un “mero intento vessatorio” o stressogeno”.

Il nesso tra “malattia psichica” e il fatto notorio

Come pure non è corretto affermare – come aveva fatto la Corte territoriale – che vi sia un nesso addirittura notorio, tra una generica “malattia psichica” e la capacità di affrontare le relazioni interpersonali, al punto di ingenerare un’impossibilità datoriale di porre rimedio allo scaturire dal lavoro di un danno per il lavoratore interessato è affermazione apodittica e non riportabile ad una regola o ad un fatto di comune esperienza e che si colloca come tale al di fuori dell’ambito di cui all’art. 115 c.p.c., comma 2 (norma che regola l’apprezzamento degli elementi istruttori, con particolare riferimento alle caratteristiche del c.d. fatto notorio).

Invero, si è detto che “le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” di cui all’art. 115 c.p.c., comma 2, possono dirsi tali solo in quanto si possa parlare di fatti o anche regole esperienza che siano pacificamente acquisite al patrimonio di cognizioni dell’uomo medio, ovverosia che risultino acquisiti alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili” (Cass. 29 ottobre 2014, n. 22950; Cass. 19 marzo 2014, n. 6299; Cass. 5 ottobre 2012, n. 16959).

Non possono essere invece considerate tali quelle valutazioni che, per la specificità scientifica e l’assenza di un’acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi.

Per tutte queste ragioni la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio della causa al giudice competente.

La redazione giuridica

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STRAINING O MOBBING: QUALE ONERE DELLA PROVA? IL PUNTO DELLA CASSAZIONE

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