La sentenza Cass. 1984 del 2016 affronta il tema della responsabilità del professionista, in particolare dell’avvocato, stabilendo che non può essere affermata solo per il non corretto adempimento dell’attività professionale: chi vuole chiedere un risarcimento deve provare il nesso di causazione tra il danno in concreto verificatosi e la condotta del danneggiante

A commento della sentenza Cass. 1984 del 2016 è interessante osservare che la Corte di Cassazione rigettava la tesi del ricorrente in merito alla omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia in quanto sia il giudice di primo grado che quello di appello hanno correttamente motivato le sentenze in merito all’omesso riconoscimento del risarcimento richiesto poiché il ricorrente non ha sufficientemente provato l’esistenza del nesso eziologico, nemmeno in termini probabilistici, tra la condotta omissiva dell’avvocato, che aveva assunto la difesa del ricorrente nel giudizio per il riconoscimento  oltre che dell’invalidità civile anche dei danni morali e patrimoniali nei confronti di una S.r.l., ed i pretesi danni derivati dalla condotta omissiva dell’avvocato.

In pratica, in tanto era  risarcibile il ricorrente per la condotta omissiva del difensore, accusato di non aver prodotto in giudizio le scritture contabili della Società dove lavorava il ricorrente,  in quanto si fosse riscontrata una regolarità causale tra la condotta omissiva dell’avvocato ed il danno lamentato dal ricorrente come conseguenza immediata e diretta di quel comportamento omissivo. Però, sia i giudici di primo grado che quelli di appello, correttamente, hanno ritenuto non esserci la regolarità causale tra condotta omissiva e danni lamentati dal ricorrente, in quanto i mancati introiti della Società dove lavorava il ricorrente a seguito della sua assenza forzosa ben potevano dipendere da fattori estranei all’assenza stessa e, dunque, la sola produzione delle scritture contabili in cui si rilevavano minori introiti presso la Società  dove lavorava il ricorrente non era da sola sufficiente a conferire una regolarità causale tra la condotta omissiva dell’avvocato ed i danni lamentati dal ricorrente come conseguenza immediata  e diretta di quella condotta omissiva.

Rileva, pertanto, ciò che statuisce espressamente l’art. 1223 c.c. in cui si prevede che il risarcimento del danno per l’inadempimento deve comprendere così la perdita subita dal creditore  (1174 c.c.) come il mancato guadagno (2056 c.c. ) in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (artt. 40 e 41 c.p.).  Non va inoltre trascurato che l’art. 1176 c.c. prevede che nell’esercizio dell’attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata e, per quanto riguarda l’attività di avvocato, è consolidato l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione che configura l’attività di avvocato e la natura dell’obbligazione assunta dall’avvocato, come una obbligazione di mezzi e non di risultato per cui l’avvocato assume l’incarico impegnandosi a fornire la prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non per garantirne il suo conseguimento.

Ne deriva che l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non po’ essere desunto, ipso  facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente , ma deve essere valutato alla stregua dei doveri  inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176  comma 2 c.c. , parametro da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata, sicché, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente , il danno derivato da eventuali sue omissioni intanto è ravvisabile in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo una indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici (cfr. Cass. 2836/02).  In Cass. 1984/16 si rileva che correttamente le due Corti di merito hanno sì rilevato l’inadempimento del professionista, ma la perdita subita ed il mancato guadagno non sono stati conseguenza immediata e diretta di quell’inadempimento: per cui correttamente le due corti di merito hanno negato il risarcimento al ricorrente.

In tema di prova la Suprema Corte osserva che la sola prova documentale non sarebbe stata sufficiente a provare che il periodo di assenza forzosa era stata la causa esclusiva dei mancati introiti subiti dalla Società dove lavorava il ricorrente ma anche con una prova testimoniale, mai richiesta dal ricorrente, potevano essere provati sia le perdite che il mancato guadagno.

Avv. Giuseppe Rachiglio

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