L’eventuale preesistenza di un giudicato ha sempre costituito un elemento di discussione che si ritrova periodicamente nella giurisprudenza, di ogni ordine e grado, in materia di diritti sociali.
Da ultimo con l’ordinanza 22/11/2024 n. 30146 la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha ribadito il principio di diritto per cui in materia di invalidità pensionabile, l’accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato si estende all’esistenza di tutti i presupposti di legge (quindi anche allo stato invalidante), cosicché la situazione già accertata non può essere rimessa in discussione ove permangano immutati gli elementi di fatto e di diritto preesistenti; osservando però come nel caso di specie fosse del tutto “assente qualsiasi allegazione circa la persistenza, in capo al de cuius, dei requisiti medico legali richiesti per poter (continuare a) fruire della prestazione riconosciuta”.
La conferma dei requisiti medico legali ai fini del riconoscimento dell’indennità di accompagnamento
Al di là del caso concreto risolto – sul piano processuale della mancanza di prova – dalla Cassazione è evidente come si stabilisca la necessità di conferma dei requisiti medico legali ai fini del riconoscimento della indennità di accompagnamento, proprio al fine di superare un giudicato formatosi in precedenza.
Non si tratta di concetti particolarmente nuovi o di affermazioni in qualche modo rivoluzionarie, ma di questioni già più volte affrontate e risolte in sede di legittimità che consentono oggi di riflettere su due questioni rilevanti.
Stiamo parlando dell’incidenza del giudicato nei giudizi istaurati ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c. e di quali siano i criteri per definire concretamente cosa sia e cosa significhi l’impossibilità di compiere gli atti concreti della vita.
Si tratta, all’apparenza, di questioni eterogenee ma che hanno avuto – ed avranno ancora – una loro specifica incidenza tanto più considerando il recentissimo inizio della sperimentazione relativa alle novità introdotte con il Decreto Legislativo 62/2024.
Le questioni da affrontare sono dunque due: partendo dalla prima è notorio ai frequentatori anche casuali di un qualunque foro nazionale che ormai da quasi tre lustri lo schema processuale in materia di invalidità pensionabile (la locuzione è usata in senso atecnico per riprendere il contenuto dell’ordinanza in commento) risponde alla non più tanto novella di cui all’art. 445 bis c.p.c.
I dubbi della norma dell’art. 445 bis c.p.c.
Se il passo del tempo comporta necessariamente la soluzione di alcuni dei dubbi inizialmente posti dalla norma dell’art. 445 bis c.p.c: non tutti hanno trovato soluzione.
Partiamo da una certezza il decreto di omologa – che normalmente chiude il giudizio – non è un provvedimento suscettibile di giudicato e dunque la struttura degli eventuali giudizi successivi è per esperienza di chi scrive condizionata dal non riconoscimento dell’esecutività del decreto, che dunque non può dare accesso alle procedure esecutive che si istaurino con precetto.
Ciò che però è più grave dal punto di vista dell’utente del servizio giustizia è che la mancanza di un giudicato in ordine alla condizione sanitaria lascia aperta e sostanzialmente rivedibile la condizione della parte privata istante.
Da quanto sopra consegue che il ragionamento logico-giudiziario posto a fondamento dell’ordinanza in commento sta progressivamente perdendo terreno e mordente per il semplice fatto che – a distanza di 12 anni ormai si può dire – molte di queste questioni semplicemente non arrivano al giudizio di legittimità, perché in molti casi si tratta di giudizi resi con sentenze non ulteriormente impugnabili, aggravando se possibile la configurazione – delineata da parte della dottrina[1] di una pressoché totale assenza di giudizio come propriamente conosciuto ed inteso.
L’impossibilità di svolgere gli atti quotidiani della vita come criterio per la concessione della indennità di accompagnamento
Altro elemento fondamentale da tenere in considerazione è la definizione degli atti quotidiani della vita e della valutazione della loro impossibilità, quale criterio per la concessione della indennità di accompagnamento.
Ora, l’art. 1 della l. 18/1980 ha previsto che ai mutilati ed invalidi civili totalmente inabili, che si trovino nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o che, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognino di una assistenza continua, è concessa una indennità di accompagnamento non reversibile. In base alla norma, occorre che sussistano due requisiti concorrenti:
- l’invalidità totale;
- l’impossibilità permanente di camminare senza un accompagnatore ovvero la necessità di assistenza continua per compiere gli atti quotidiani della vita.
Si tratta di requisiti che sono stati delineati nel loro contenuto concreto dalla giurisprudenza di legittimità, con precedenti ormai granitici.
Ma cosa sono gli atti quotidiani della vita?
Se per atti quotidiani della vita si intendono quel complesso di funzioni quotidiane della vita individuabili in alcuni atti interdipendenti o complementari nel quadro esistenziale d’ogni giorno: vestizione, nutrizione, igiene personale, espletamento dei bisogni fisiologici, acquisti e compere, preparazione dei cibi, spostamento nell’ambiente domestico o per il raggiungimento del luogo di lavoro, capacità di attuare le faccende domestiche, conoscenza del valore del denaro, orientamento spazio-temporale, possibilità di attuare condizioni di autosoccorso e di chiedere soccorso, lettura, messa in funzione della radio e della televisione, guida dell’automobile per necessità quotidiane legate a funzioni vitali.
Seppure il concetto di impossibilità è necessariamente più stringente della mera difficoltà – sia nella deambulazione che nel compimento degli atti quotidiani della vita, in generale si riconosce il bisogno di assistenza continua anche per la necessità di evitare danni a se o ad altri secondo il portato di Cass. 19/8/2022 n. 24980, il che contribuisce a smentire ed a smontare la centralità del livello basale di autonomia personale, considerando che l’indennità in parola ha (anche) la funzione di garantire un livello accettabile di integrazione sociale e di comunità in coerenza con le previsioni della CDPD, globalmente considerate.
Si conferma inoltre essere la cadenza quotidiana che l’atto assume a determinare la permanenza del bisogno, che costituisce la ragione stessa del diritto. (Cassazione civile sez. lav., 09/03/2023, n.7032), pur se in sede valutativa primaria si tende ad escludere la valutazione delle attività extradomiciliari, per concentrarsi su un livello basale di autonomia personale.
La perdita di autonomia complessiva della persona
Un interpretazione eccessivamente restrittiva, tanto da essere quasi contra legem, se si considera che ciò che si deve valutare in concreto – e da parte del giudice – è l’effettiva e concreta perdita di autonomia complessiva della persona, tenendo presente, da un lato, che la capacità di attendere agli atti della vita quotidiana deve intendersi non solo in senso fisico, cioè come mera idoneità ad eseguire in senso materiale detti atti, ma anche come capacità di intenderne il significato, la portata, la loro importanza anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psicofisica e, dall’altro, che l’incapacità non deve parametrarsi sul numero degli elementari atti giornalieri, quanto piuttosto sulle loro ricadute in termini di incidenza sulla salute del malato e sulla sua dignità come persona.
Abbiamo visto come siano fondamentali le scale di valutazione rispetto alle quali punto di riferimento fondamentale sono le scale ADL (specialmente nell’indicare le funzioni basali da prendere in considerazione: lavarsi, vestirsi, spostarsi, continenza sfinteriale e autonomia in toilette, alimentazione ) e IADL (enfatizzando le funzioni più elementari quali l’assunzione dei farmaci e la preparazione dei pasti)[2] pur se spessissimo in sede di valutazioni peritali esse sono valutate come dichiarazioni della parte, pur se si tratta normalmente di esame specialistico svolto in ambiente ospedaliero.
Un riflesso, forse, della interpretazione restrittiva assunta dall’Inps quale Ente Pubblico di riferimento sia per quanto concerne la valutazione che la liquidazione del beneficio per cui è parola e che a quanto è dato capire si è cristallizzata nel testo del decreto legislativo 62/2024, di cui è appena iniziata la sperimentazione.
L’assistenza permanente e continua
Tuttavia l’impossibilità a compiere gli atti quotidiani della vita si configura non solo in ipotesi di effettivo e concreto impedimento agli stessi, tali da imporre attività sostitutiva da parte di terzi, ma anche quando tali attività presentino qualora svolte da persona con disabilità un grado di pericolosità degli stessi in termini di salvaguardia della salute psicofisica residua e/o della dignità della persona, ovvero quando gli stessi impongano uno sforzo eccessivo in relazione alla conservazione della condizione di salute generale della persona coinvolta.
Rammentiamo a noi stessi, inoltre che l’assistenza permanente e continua può essere intesa sia:
- in termini di esecuzione di azioni materiali: quali, a mero titolo esemplificativo, «trasporto ed assistenza» durante gli accessi alla struttura ospedaliera, approvvigionamento di alimenti e farmaci, medicazioni e/o assunzione di terapie, ecc.
- in termini di necessità di presenza e sostegno morale, oltre che psicologico, durante le fasi di diagnosi e/o di aggravamento delle condizioni cliniche.
Tutto ciò dovrebbe consigliare – a nostro parere – quando non imporre, una modifica nelle valutazioni complessive, che dovrebbero divenire molto più persona-centriche, partendo da un quadro che è necessariamente quello della relazione tra persona e ambiente.
Una modifica delle valutazioni complessive per la concessione della indennità di accompagnamento
Proprio la necessità di presenza e sostegno inducono a confermare – in base al complesso della giurisprudenza esaminata – come l’indennità in parola si configuri come una prestazione del tutto peculiare, in cui l’intervento assistenziale non è indirizzato al sostentamento del soggetto minorato nelle sue capacità di lavoro ma è quello di sostenere il nucleo familiare onde incoraggiarlo a farsene carico, evitando così il ricovero in istituti ed assistenza, con conseguente diminuzione della relativa spesa sociale.
Ora, a contrario, secondo certa giurisprudenza l’indennità di accompagnamento non è dovuta in caso di ricovero in struttura che garantisca alla persona totalmente invalida oltre alle cure di natura medica in senso stretto, anche una assistenza completa di carattere personale – continuativa ed efficiente – per tutto ciò che attiene agli atti della vita quotidiana, tale da rendere superflua l’assistenza dei familiari, trattandosi di garantire cure e assistenza sul piano affettivo, relazionale e psicologico.
Un’assistenza di questo genere non è certo garantita dalla media delle strutture ospedaliere e di ricovero, non potendo garantirsi standard assistenziali tali da rendere non necessaria e financo superflua l’assistenza dei familiari.
In tal senso deve darsi rilevanza di vicinanza emotiva e psicologica al soggetto ricoverato, con lo scopo di sopperire ad eventuali scoperture e per fornire supporto e stimolazione emotiva.
Silvia Assennato
Avvocato in Roma
[1] Si veda nella specie il riferimento contenuto in Accesso alla Giustizia per le Persone con Disabilità, Key Editore, 2023 dell’autrice, a pag. 43.
[2]ADL (Activities of Daily Living) è una scala di valutazione di autonomia nelle attività quotidiane. IADL (Instrumental Activities of Daily Living) è una scala delle attività strumentali della vita quotidiana, cioè quelle più complesse e che condizionano comunque l’autonomia personale: usare il telefono, usare i mezzi pubblici, gestire il denaro, uso responsabile dei farmaci, preparazione dei pasti, governo della casa, ecc.