Andava eseguito un tampone per rivelare l’agente patogeno e consentire la somministrazione di antibiotico specifico onde eliminare i fattori ostacolanti il processo di guarigione delle ferite (Tribunale di Potenza, sentenza n. 380/2020 del 20 maggio 2020)

Il paziente cita a giudizio la Casa di Cura e il Chirurgo onde vederne accertata la responsabilità per l’infezione contratta all’esito dell’intervento chirurgico di riparazione del tendine d’Achille, eseguito in data 25 giugno 2008. In particolare, l’uomo in data 25 giugno 2008 veniva sottoposto all’intervento e poi dimesso con diagnosi di “rottura completa del tendine d’Achille sinistro trattato con tenorrafia termino – terminale “.

In data 4 luglio 200 8 veniva sottoposto alla rimozione dalla ferita chirurgica di dieci dei venti punti di sutura e la rimozione dei residui veniva differita per la scarsa cicatrizzazione della ferita.

Successivamente il Medico curante rimuoveva la medicazione e scopriva che la ferita era completamente ricoperta da secrezione e dopo aver eseguito pulizia della ferita e disinfezione della stessa invitava il paziente a prendere contatti coi sanitari della Struttura ove era stato operato.

Il Chirurgo in data 15 luglio 2018, visionata la ferita, attribuiva l’infiammazione al normale decorso post operatorio e procedeva alla rimozione dei restanti punti di sutura.

Il primo agosto 2008 veniva eseguita una revisione chirurgica della ferita, seguivano altre due visite di controllo ove i sanitari nulla riscontravano.

Il successivo mese di ottobre il paziente si recava presso altro specialista che riscontrava necrosi della cicatrice, il rischio d’intaccamento del tendine d’Achille e la conseguente necessità di un nuovo intervento di tenorrafia.

La causa viene istruita attraverso CTU Medico-legale che ha concluso per la correttezza dell’intervento chirurgico e per la presenza di profili di colpa per imperizia nella fase post-operatoria.

Nella Consulenza si legge “la necrosi tessutale verificatasi avrebbe potuto essere evitata qualora i medici avessero neutralizzato tempestivamente la fuoriuscita di liquido siero ematico dalla ferita, liquido che, in buona sostanza, ha bloccato il processo di riparazione tessutale nella fase dell’infiammazione, impedendo così la formazione del tessuto di granulazione, tappa fondamentale per la riparazione della lesione. ….(..).. riscontrata la persistenza del processo essudativo a fronte della somministrazione di antibiotici generici, i sanitari avrebbero dovuto eseguire un tampone capace di rivelare l’agente patogeno e consentire, così, la predisposizione e somministrazione della terapia antibiotica specifica, capace di eliminare i fattori ostacolanti il processo di guarigione delle ferite, agevolando i processi di riparazione tessutale”.

Siffatta omissione è idonea a fondare un giudizio di responsabilità in capo al Chirurgo convenuto.

Ciò posto, passando al ristoro del danno, la CTU ha riconosciuto in capo al danneggiato un danno biologico sviluppatosi nelle forme del danno estetico e un danno psichico e ha determinato l’invalidità permanente, complessivamente considerata nelle sue due componenti, psichica ed estetica nella misura del 7%.

Tuttavia, il Tribunale tiene conto che il CTU ha affermato che “l’emendabilità chirurgica dell’esito cicatriziale non può essere obbligata nel caso di specie”, suggerendo così il fatto che la cicatrice possa essere, in ogni caso, emendata con un appropriato intervento chirurgico.

Al riguardo viene osservato che “nel caso in cui il danno estetico patito a seguito di sinistro stradale sia emendabile con apposito intervento chirurgico, il danno biologico risarcibile è costituito dal grado di invalidità permanente che in via presuntiva residuerà dopo l’intervento chirurgico, mentre il costo di quest’ultimo va liquidato a titolo di danno patrimoniale. (Tribunale Roma Sez. XIII, 28 aprile 2004)”.

Ebbene, considerata la documentazione prodotta in atti, sottoposta al vaglio di congruità del CTU, tale pregiudizio viene quantificato in euro 931,75.

Avv. Emanuela Foligno

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