Leggendo questa sentenza sulle infezioni ospedaliere (che si allega in calce) son venute spontanee tante riflessioni che hanno portato lo scrivente a fare la solita riflessione “parlare è facile, giudicare con chiarezza è, invece, difficile!”.

La questione delle infezioni ospedaliere, delle quali si è discusso più volte sulle pagine di questo quotidiano (vedere i link sottostanti), è sempre alla ribalta e non trova soluzioni prive di “difetti” pratici e teorici. Lo evidenziano tante sentenze di merito, compresa quella che ci si appresta a commentare con profonda umiltà.

L’excursus teorico dello stimabile Giudice di prime cure non fa una grinza quasi sempre a partire dal concetto dell’onere della prova che in un rapporto contrattuale resta a carico della struttura sanitaria per finire a quello che per condannare il convenuto necessita la prova della colpa.

Allora come si fa a fare soccombere l’attore quando egli ha dimostrato quanto di sua pertinenza, ossia il contratto, il maggior danno, il nesso di causa e finanche l’inadempimento qualificato in astratto adeguato a produrre il danno lamentato?

La prova adeguata non è certo quella a cui si riferisce il Giudice in quanto la prova deve essere concreta e soprattutto qualificabile non solo nei comportamenti dei convenuti ma nei risultati conseguenti ai comportamenti “in teoria” efficaci ad evitare il fatto dannoso (infezione).

Se il Giudice facesse il giro della maggior parte degli ospedali italiani si accorgerebbe come l’incomprimibilità dell’evento infettivo abbia una etiologia certa: la non salubrità. E certamente non bastano le dimostrazioni di avere dei Comitati per il controllo delle infezioni ospedaliere (CIO) quando non si può accertare il lavoro (in qualità e in efficacia) dei controllori e degli esecutori materiali di tali controlli e di tali lavori di prevenzione.

Il concetto che domina gli scenari delle I.O. è che una volta accertato il fatto illecito, ossia che l’infezione è di natura nosocomiale, e il convenuto non ha provato la propria estraneità, il paziente non può soccombere se non in un determinato caso: paziente defedato già all’ingresso nella struttura e quindi esso stesso (preesistenze) concorrente efficacemente alla produzione del danno.

Tutto il resto sono solo teorie che non possono discolpare la struttura e chi la dirige anche per il fatto che non può soccombere la parte più debole e quella che già ha soddisfatto ai propri doveri giuridici.

Ritornando al concetto di incomprimibilità di un evento esso non deve cozzare con fatti che debbono essere i primi ad essere dimostrati:

  • La messa in opera di soluzioni tecnologiche e umane che hanno diminuito grandemente nel tempo l’insorgere dell’evento infettivo;
  • La prova della solubrità degli ambienti tramite mezzi tecnologici che devono prevedere la prova video delle pulizie dei locali e della loro frequenza.

Quanto sopra detto non può essere contraddetto in quanto una volta accertata la natura nosocomiale dell’infezione e non potendo precisare il momento infettivo, l’ambiente o il soggetto contaminante, non si può discolpare per presunzione semplice la struttura affermando che ha disposto controlli e azioni adeguate (in teoria) a evitare l’evento avverso o a comprimerlo ai minimi termini.

Quindi con doverosa umiltà debbo dissentire da quanto affermato dal Giudice a riguardo della potenziale incomprimibilità dell’evento infettivo in assenza di prove certe.

Altro aspetto della sentenza che appare lacunoso (per il sottoscritto) è la quantificazione del risarcimento del danno subito dal paziente.

Il giudice parte da un concetto condivisibile, ossia che è “vietato” duplicare le poste di risarcimento del danno non patrimoniale per valutare lo stesso danno. Ma se si leggono le motivazioni che hanno condotto il Giudice a stabilire la posta risarcitoria si nota come se da un lato partono da un concetto assolutamente giusto, dall’altro non sembrano, nella sostanza, motivate se non dal fare proprie le conclusioni del CTU che valuta l’invalidità permanente nella misura del 15% e l’invalidità temporanea nella misura di 90 gg per l’assoluta e 90 per la temporanea.

In questa “decisione”  sembrano mancare del tutto dei concetti fondamentali:

  • Se trattasi di maggior danno (il 15%) come appare ovvio (ma il ctu probabilmente non è specialista in medicina legale);
  • Qual era l’esito atteso e la sua valutazione in termini di invalidità permanente;
  • Se il danno differenziale sia stato calcolato come differenziale economico tra il danno residuato e quello atteso (come deve essere fatto);
  • Il significato della personalizzazione in termini di sofferenza e di diminuita qualità e quantità delle attività esistenziali possibili per il periziando.

Insomma se la sentenza di condanna per i convenuti sembra giusta allo scrivente (ad eccezioni delle considerazioni sulla incomprimibilità del rischio delle infezioni), non sembra giusto il quantum debeatur in quanto mancano le motivazioni logico-pratiche della sua quantificazione.

Dr. Carmelo Galipò

(Pres. Accademia della Medicina Legale)

SCARICA QUI LA SENTENZA

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