Gli elevati livelli di ansia da soli non sono sufficienti per aver dato materia a un effettivo vizio di mente o infermità mentale, pur transitoria, tale da escludere l’imputabilità (Corte di Cassazione, prima penale, sentenza 29 maggio 2024, n. 21141).
I fatti
In data 7 gennaio 2020 era rinvenuto presso l’abitazione dell’imputata il cadavere dell’anziano L.C. sul quale venivano rilevate numerose ferite di arma da taglio e varie lesioni di tipo contusivo.
Eseguito l’accertamento tecnico di genetica forense, le testimonianze, l’analisi dei dati di videosorveglianza e dei tabulati telefonici, i Giudici di merito hanno affermato la penale responsabilità della donna nipote prediletta della vittima e convivente incaricata del suo accudimento.
Nel giorno del fatto l’imputata, dopo avere preparato il pranzo al nonno L.C., lo aveva accompagnato nella camera da letto. Lì, lo aveva dapprima colpito ripetutamente con un bastone alla testa e al dorso delle mani e poi lo aveva ferito mortalmente, in un’azione di overkilling, con ventisei coltellate vibrate alla parte anteriore e a quella posteriore del torace. L’atto probabilmente è stato compiuto per motivi ritenuti connessi ai profili economici relativi al possesso di beni di proprietà dell’anziano, uomo dal carattere particolarmente burbero a scontroso, ritenuto ostile da quasi tutti i congiunti.
La vicenda giuridica
I Giudici di entrambi i gradi non hanno aderito alla prospettazione della carenza della capacità di intendere e di volere dell’imputata, essendo dal Perito, al pari del Consulente del Pubblico Ministero, stata negata la sussistenza di pregressi disturbi psichiatrici ed essendo stata accertata la condotta coerente e tranquilla dell’imputata nelle fasi antecedenti e successive all’omicidio, con esclusione dell’evenienza di uno stato, anche transitorio, di incapacità.
La Corte di Assise di appello di Potenza ha parzialmente riformato la decisione resa dalla Corte di assise di Potenza, rideterminando la pena inflitta all’imputata L.C.F., in ordine al delitto di omicidio pluriaggravato (per avere commesso il fatto contro un ascendente e con crudeltà) a lei ascritto, in anni sedici di reclusione (in luogo della pena di anni ventidue di reclusione irrogata in primo grado), in esito alla dichiarazione di prevalenza delle già riconosciute circostanze attenuanti generiche sulle ritenute aggravanti, confermando nel resto la decisione di primo grado.
La Corte di Assise di appello ha di fatto respinto l’appello del PM che aveva impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva riconosciuto all’imputata le circostanze attenuanti generiche.
Il ricorso in Cassazione
Il difensore della donna impugna la decisione in Cassazione e lamenta manifesta illogicità della motivazione in merito alla ritenuta capacità di intendere e di volere. In particolare, sostiene che la Corte di assise di appello sarebbe incorsa in un’errata valutazione degli elementi di prova emersi durante l’istruttoria dibattimentale, omettendo di tenere in debita considerazione quelli favorevoli all’imputata, tali da imporre il giudizio di assoluzione per l’evenienza dell’incapacità totale della medesima.
Secondo la tesi della difesa della donna, i Giudici di appello avrebbero mancato di ripercorrere adeguatamente l’iter logico-giuridico seguito per giungere alla decisione e, quindi, per non aver vagliato in modo effettivo il concetto stesso di imputabilità. Quindi la Corte territoriale si sarebbe limitata a ribadire che gli elementi valorizzati dai Consulenti della difesa non evidenziano un’anomalia psichica caratterizzata da consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, senza però dare minimamente conto delle tesi sviluppata in senso opposto e specialmente delle conclusioni formulate dai Consulenti di parte nel processo di primo grado. Elementi, questi ultimi, dotati di valenza decisiva per la pronuncia sull’imputabilità della donna, anche alla luce del particolare contesto socio-familiare della stessa.
La perizia psichiatrica
La Cassazione rigetta tutte le censure e ripercorre le risultanze della perizia psichiatrica, a cui l’imputata era stata sottoposta, frutto dell’anamnesi, dell’esame psichico e dei test di valutazione psicopatologica e di personalità somministrati in modo corretto all’imputata, e che hanno fatto emergere – sulla scorta dell’analisi degli esiti acquisiti in virtù di valide e coerenti considerazioni medico-legali – l’accertamento di un profilo di personalità, seppur vulnerabile, caratterizzato dall’assenza di serie anomalie patologiche e disfunzionali.
Il Perito ha negato l’emersione di stati di transitoria incapacità mentale della donna, considerata la totale assenza di sintomi psicotici ragionevolmente in grado di produrre alterazioni comportamentali tangibili, anche nella fase precedente e in quella successiva al delitto.
Ergo, coerentemente con l’esito delle testé menzionate conclusioni del Perito, la capacità di intendere e di volere dell’imputata non è stata né esclusa, né ritenuta grandemente scemata, in perfetta consonanza con il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, benché non sempre inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché però essi siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”.
L’infermità mentale ai fini della non imputabilità
Ne discende, che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità. La corte di merito si è confrontata in modo adeguato ed effettivo con le valutazioni espresse dai Consulenti di parte, tanto da prendere in concreta considerazione alcune delle situazioni evidenziate da quegli ausiliari (la grave situazione di stress, la personalità ipertrofica, i gravi conflitti interparentali) quando si è trattato di operare il bilanciamento fra le contrapposte circostanze, pervenendo al giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle circostanze aggravanti poste a carico dell’imputata, avendo riconosciuto, fra gli altri dati valutati, a quelle situazioni una certa incidenza sull’intensità del dolo e sui motivi a delinquere.
È ben vero che i Consulenti della difesa hanno, in particolare, sottolineato la presenza di “elevati livelli di ansia” in persona dell’imputata, in larga parte riconducibili al difficile rapporto di convivenza con il nonno, soggetto dal carattere spigoloso e sovente aggressivo, e al generale contesto di rapporti endofamiliari deteriorati: questi aspetti, ad avviso della difesa, avrebbero provocato un cedimento delle facoltà mentali dell’imputata fino a determinarne uno “stato di vera e propria malattia”.
Ebbene, i Giudici della Corte territoriale hanno accuratamente esaminato, per poi escludere, che i suddetti fattori avessero concretamente influito sulla capacità di intendere e di volere della donna. È stato, in particolare, escluso che la forte condizione di ansia di cui l’imputata era vittima avesse potuto determinare uno stato patologico in grado di incidere sulle sue facoltà mentali, non essendo emersi, in sede anamnestica, pregressi disturbi psichiatrici o comunque elementi significativi della presenza di problematiche di natura psichiatrica.
La reazione “a corto circuito”
La prospettazione difensiva secondo cui l’imputata avrebbe aggredito il nonno colpendolo mortalmente perché in preda a una reazione “a corto circuito” – frutto di una condizione di carattere transitorio comportante un serio perturbamento psichico, benché di natura non stabilmente patologica, potendo reazioni di tale natura costituire, in certe situazioni, manifestazioni di una vera e propria malattia in grado di investire la capacità di intendere e di volere – è stata efficacemente contrastata dalla Corte territoriale, non essendo stata riscontrata la presenza degli specifici sintomi psicotici o altro genere di fattori, pur transeunti, di consistenza, intensità e gravità sufficienti a compromettere i processi decisionali della giovane donna e, anzi, militando in senso avverso a tale prospettiva sia il comportamento antecedente all’azione tipica, sia quello successivo al fatto.
In riferimento alla prospettata reazione “a corto circuito”, viene ribadito l’indirizzo secondo cui fuoriesce dalla nozione di infermità mentale il complesso delle cosiddette abnormità psichiche, del tipo della nevrosi d’ansia o delle reazioni a “corto circuito”, le quali si configurano per la loro natura transitoria e non sono indicative di uno stato morboso, inteso come ragionevole alterazione della capacità di intendere o di volere, con la conseguenza che esse non sono in grado di incidere sull’imputabilità del soggetto che ne è portatore.
La presenza di una condizione patologica effettiva
Nel riscontro della capacità di intendere e di volere necessaria per l’imputabilità del soggetto, ai sensi dell’art. 85 c.p., l’infermità mentale, come delineata dagli artt. 88 e 89 c.p., implica la presenza di una condizione patologica effettiva, in grado di alterare i processi intellettivi e volitivi, così da determinare l’assenza o la significativa riduzione della capacità di comprendere e volere, e che da detta nozione esorbitano sia le anomalie caratteriali non conseguenti a uno stato patologico, sia gli stati emotivi e passionali, sia il novero delle cosiddette “abnormità psichiche”, del tipo delle nevrosi d’ansia o delle reazioni “a corto circuito”.
Pertanto non si presentano illogiche le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, conformemente a quelle fatte proprie dal primo Giudice, nella parte in cui essa ha escluso che gli elevati livelli di ansia di cui la donna soffriva potessero aver dato materia a un effettivo vizio di mente, pur transitorio, tale da escludere l’imputabilità.
Avv. Emanuela Foligno