Lavorare in fabbrica a 8 anni. E’ la triste storia di un minore di origine cinese, trovato a lavorare in una fabbrica lombarda, qualche giorno fa dagli uomini della Guardia di Finanza di Varese, che proprio non credevano ai loro occhi.
La notizia, appresa durante un sopralluogo a scopo di ispezione, effettuato in una fabbrica di pelletteria di Olgiate Olona, di proprietà di un cinese, ha fatto scattare la denuncia.
Il minore, affiancato da altri due minorenni, rispettivamente un bambino di 14 e una ragazzina di 17 anni, tutti figli di dipendenti di una ditta controllata era impegnato a tagliare la pelle con cui poi cucire i capi di alcune griffe della moda italiana. Subito è partita la denuncia da parte dei finanzieri al titolare della ditta cinese, per sfruttamento della manodopera minorile. Ebbene, questa è solo l’ennesima triste storia di un fenomeno, purtroppo ancora assai diffuso.
Secondo le stime attuali, i bambini costretti a lavorare sono più di 250 milioni. Le occupazioni più comuni sono il raccoglitore di immondizia, lo spaccapietre, il cucitore di palloni o il tessitore di tappeti. Sono sottoposti dalle dodici alle sedici ore di duro lavoro giornaliero, durante le quali vengono maltrattati e pagati pochissimo. Le causa di questo problema è in molti casi la povertà delle famiglie, oppure il crollo economico dello Stato e quindi l’aumento delle tasse. Altre volte i bambini sono sottoposti a ricatti e angherie e, non avendo un’ istruzione solida non riescono a difendersi. Le nazioni più interessate sono i paesi meno sviluppati o quelli in via di sviluppo come America latina, Oceania e paesi come la Cina in cui la situazione è davvero tragica.
Non sono, tuttavia, esenti dal problema del lavoro minorile nemmeno i paesi industrializzati, anzi l’dea che questo tipo di fenomeno sia connesso esclusivamente alle economie in via di sviluppo è una fantasia ormai da tempo abbandonata.
Sono soprattutto le grandi multinazionali dell’Occidente sviluppato ad esserne le più coinvolte.
Sono ben noti i rapporti che la stampe e i giornali di qualche anno fa riprendevano dall’associazione umanitaria China Labour Watch, secondo cui, per confezionare un paio di scarpe di una nota casa americana e vendute in Europa a 150 Euro, un ragazzo di 14 anni guadagna 45 centesimi di euro, lavora 16 ore al giorno, dorme in fabbrica e, per di più, non ha ferie né assicurazione in caso di malattia, lavora a contatto con sostanze tossiche.
Ma queste sono soltanto alcune delle notizie di tutta una lunga serie di episodi che a partire dagli anni ’80 hanno popolato i quotidiani e le trasmissioni televisive, che si sono occupate di minori e adolescenti sfruttati nel lavoro.
È ipotizzabile che tali notizie, così come lo svolgimento di numerose campagne di sensibilizzazione contro lo sfruttamento minorile, abbiano creato confusione tra questo fenomeno e lo svolgimento di qualsiasi lavoro svolto da un minore, anche quando l’attività svolta è poco impegnativa e tutelata in maniera adeguato dalla legge.
Esiste poi un dato. Cè una difficoltà oggettiva nella raccolta e analisi dei dati sul lavoro minorile. Innanzitutto non è possibile utilizzare gli stessi strumenti e metodi di rilevazione e misurazione impiegati per gli adulti, soprattutto in relazione alla discontinuità, alla flessibilità, alla residualità che connota la presenza dei minori nel mondo del lavoro. Inoltre, soprattutto, quando i minori vengono utilizzati in forma irregolare (ad esempio senza la copertura previdenziale dovuta) o illegale (ad esempio al di fuori delle norme stabilite per quanto riguarda i limiti di età), sia i datori di lavoro, sia le famiglie, sia gli stessi interessati possono essere estremamente reticenti nel fornire informazioni che potrebbero condurre a una sanzione, o più in generale, all’interruzione del lavoro da parte del minore.
Il fenomeno della mancanza di dati sicuri ed attendibili sul lavoro minorile , non è un problema soltanto italiano.
Anche a livello internazionale mancano dati omogenei e compatibili perché le modalità di indagine utilizzate sono molto divergenti tra loro e non sempre attendibili.
L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro, che già da tempo si occupa della causa dello sfruttamento connesso al lavoro minorile), già da qualche anno ha iniziato a predisporre strumenti idonei ad una corretta rilevazione e valutazione del fenomeno,fornendo a questo scopo anche supporto tecnico, con l’obiettivo di creare un repertorio di dati, fra loro comparabili, che consentano di mettere a punto politiche di intervento mirate a contrastare o, comunque, a regolare eglio questo fenomeno (Anker).
Un esercito di minori, vittima di un sistema di omertà e complicità che manda avanti la grande “fabbrica del mondo”, che costruisce un capitalismo sempre più affamato e cinico-. Dall’omertà e dal silenzio sottomesso e logorante, tuttavia, qualcuno ha cominciato a parlare, rivelando condizioni di vita al limite del disumano e, fornendo prove di storie di sfruttamento, di lavoro minorile, di violenze, e di malattie.
Minorenni sulla catena di montaggio in fabbriche gestite come carceri, salari che bastano appena a sopravvivere, operai avvelenati dalle sostanze tossiche, una strage di incidenti sul lavoro.
Quello che tuttavia è ancor più inquietante è che queste storie che hanno visto coinvolte le grandi aziende del capitalismo occidentale, non sono emerse durante le normali e regolari ispezioni che le stesse case produttrici operano nelle proprie fabbriche, né sono il risultato dei rapporti dei propri rappresentanti permanenti in azienda. Sono state necessarie le testimonianze disperate che gli operai hanno confidato agli attivisti umanitari, rischiando il licenziamento e la perdita del salario se le loro identità fosse stata scoperta. “
A partire dagli anni ’80, un movimento di sensibilizzazione per il fenomeno, aveva portato alla diffusione di diversi modelli di organizzazione e gestione della produzione e soprattutto di gestione e organizzazione delle risorse umane nelle grandi aziende multinazionali, proprio al fine di prevenire e se possibile debellare la piaga dello sfruttamento di lavoro minorile.
Tra questi strumenti vi erano ad esempio:
1) Codici di condotta per le aziende, liberamente scelte dalle compagnie; si trattava in verità, di negoziati tra imprese e sindacati e costituivano una dichiarazione pubblica e ufficiale, in base alle quali gli imprenditori si impegnavano ad organizzare e gestire la produzione in modo che in nessuna delle fasi della produzione e oltre, fosse impiegato lavoro minorile.
2) Campagne di denuncia, nel caso in cui nella produzione fosse coinvolta mano d’opera minorile. Queste campagne sicuramente hanno l’effetto di impattare negativamente sull’immagine pubblica dell’azienda con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda l’andamento di mercato e il sistema delle vendite, destinato inesorabilmente a crollare.
3) Sistema delle preferenze geeralizzate (“Generalized System of Preferences – GPS”) adottato dagli USA e dall’Unione Europea (“Generalized System of Preferences in EU”; (“Generalized System of Preferences in USA”). I GPS favoriscono le merci prodotte nel rispetto delle normative internazionali in merito al lavoro minorile, in particolare le specifiche Convenzioni approvate dall’inernational Labour Organization (ILO), attraverso riduzioni tariffarie o doganali;
4) Etichette sociali e marchi di qualità,a cui il produttore decide liberamente di aderire; esse garantiscono che la produzione di un certo prodotto avvenga nel rispetto dei diritti umani e senza l’impiego di lavoro minorile, mediante il controllo e la verifica delle modalità di produzione, da parte di organismi interni o esterni all’azienda medesima.
Di recente è stato avviato un dibattito circa l’opportunità di ricorrere a “clausole sociali” obbligatorie che impongano l’applicazione di standard di lavoro minimi per tutte le case produttrici o aziende. Ma come giustamente è stato osservato, l’adozione di queste misure “coattive” a poco servirebbe nella lotta al fenomeno dello sfruttamento di lavoro minorile. Queste andrebbero, infatti, a colpire settori circoscritti quali quello manifatturiero (per lo più destinato all’esportazione) ed, in verità, stando alle stime internazionali, soltanto il 5% dei minori lavoratori è impiegato in questo settore (Unicef, 1997). Non solo. Ma l’espulsione di questi minori dall’industria, non è detto che si traduca necessariamente in un miglioramento della loro vita (Ashraf, 2001).
In Italia, seppure in confronto ad altri paesi ,il fenomeno è ossia meno esteso, ancora si assiste a situazioni drammatiche come quella di cui oggi si racconta e che pertanto richiede di essere combattuto con la forza delle legge l’impegno sociale solidale.
La verità è che dietro il termine “lavoro minorile” si annidano fenomeni tra loro differenti, generando così ulteriore confusione.
Va infatti ricordato che non tutto il lavoro minorile è illegale. Le leggi e la normativa possono variare da paese a paese, ma esiste sempre una soglia costituita dall’età minima per l’avviamento al lavoro, al di sotto della quale è fatto divieto di utilizzare un ragazzo in un’attività lavorativa, ma al di sopra della quale ciò è perfettamente lecito. Esistono, pertanto, minori che lavorano in forma perfettamente legale[1].
Non solo. Un altro punto che merita di essere rilevato è che bisogna fare attenzione a distinguere quei lavori che, in generale, sono preclusi sia agli adulti che ai minori, perché sono di per se illegali (es. spaccio di sostanze stupefacenti e/o per il coinvolgimento in attività criminali) e i lavori proibiti soltanto ai minori in quanto possono essere causa di un danno, in ragione dell’età, ma che sono accettabili raggiunta la maggiore età: è il caso ad esempio del lavoro in miniera e di alcune forme di spettacolo.
Così come va tenuto distinto il c.d. child work (o forme accettabili di lavoro, si tratta cioè del semplice svolgimento di un’attività economica da parte di un adolescente -e non din un bambino – che può rappresentare un’occasione per questo, di socializzazione al lavoro e socializzazione economica così come una opportunità di crescita e autostima. Ovviamente perché questo accada è necessario che lo svolgimento del lavoro da parte del minore adolescente non sia frutto di una costrizione e che le attività svolte non siano pregiudizievoli per la formazione scolastica, né pericolose o dannose per il benessere psico-fisico del ragazzo), e il child labour (lo sfruttamento lavorativo, comunque dannoso per il minore).Distinzione alla quale non sono mancate critiche[2].
Se queste sono le premesse, ci possiamo chiedere allora, quali sono gli strumenti di tutela in favore del minore?
Partendo ad analizzare la normativa internazionale, un primo strumento di tutela è sicuramente quello predisposto dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo, approvata nel 1959 dall’Assemblea generale dell’ONU. L’art.9 della Dichiarazione stabilisce che: “Il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta. Il fanciullo non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di avere raggiunto un’età adatta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un’occupazione o un impegno che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale o morale”.
Quaranta anni più tardi, nel 1989, l’assemblea dell’ONU approvava, la Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo. Come stabilisce l’art. 1 della stessa, si tratta di diritti inalienabili che riguardano tutti questi soggetti che ancora non hanno compiuto i 18 anni di età e all’art.32 afferma che il ragazzo deve essere difeso da ogni forma di lavoro che ne comprometta la salute, la frequenza scolastica e lo sviluppo. Stabilisce inoltre che gli Stati identifichino l’età minima per l’avviamento al lavoro e ne regolino le condizioni in cui è svolto.
La preoccupazione è evidentemente quella di assicurare priorità assoluta alla protezione di bambini e adolescenti. “In tutte le decisioni relative si fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una “considerazione preminente”. (art. 3)[3].
Sulla stessa scia si inserisce la Convenzione OIL n. 138 sull’Età Minima del Lavoro minorile, la quale fissava a 15 anni, il limite per l’ingresso del minore nel mondo del lavoro e purché esso non fosse coinvolto in attività pericolose o dannose, in considerazione del soggetto, a causa della natura stessa dell’attività svolta o per le condizioni in cui questa è praticata.
In deroga a quanto appena detto, “i Paesi con una economia e con struttura scolastiche insufficientemente sviluppate possono fissare l’età minima d’avvio al lavoro a 14 anni, previa consultazione con le Organizzazione dei lavoratori ed egli imprenditori”
Ha fatto seguito alla Convenzione 138, la Convenzione n. 182 relativa alla proibizione ed immediata eliminazione delle forme peggiori di lavoro minorile, approvata dalla Conferenza Internazionale sul lavoro nel 1999 e, sottoscritta dal Governo italiano nel 2000.
L’art. 3 della stessa, definisce “peggiori forme di lavoro minorile”: a) tutte le forme di schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, quali la vendita e la tratta di minori, la servitù per debito e l’asservimento, il lavoro forzato coattivo, compreso il reclutamento forzato o coatto di minori ai fini di un impiego nei conflitti amati; b) l’impiego, l’ingaggio o l’offerta di un minore ai fini di attività illecite, come il traffico di stupefacenti etc. c) qualsiasi tipo di lavoro, che per sua natura o per circostanze in cui viene svolto, rischi di compromettere la salute, la sicurezza o la moralità del minore.
Su quest’ultimo punto comunque, la Convenzione riserva alle legislazioni nazionali o alle competenti autorità statali, il compito di stabilire nello specifico la lista dei lavori peggiori da eliminare.
Si può ben capire la difficoltà che la comunità internazionale ha, nel raggiungere un accordo circa la definizione delle forme di lavoro che debbono essere considerate inaccettabili per un minore.
Comunque tra i punti di maggiore rilevanza della citata Convenzione internazionale, vi era l’espresso obbligo per gli Stati aderenti, di apprestare meccanismi concreti di monitoraggio al fine di sorvegliare l’applicazione della Convenzione medesima,e previa consultazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori (art. 5);così come l’impiego tassativo di programmi di azione e di adottare tutti i provvedimenti necessari per garantire l’effettiva applicazione della Convenzione (art. 6).
La normativa italiana in materia.
A livello nazionale, la produzione legislativa in materia di sfruttamento minorile risale principalmente agli anni 70 e 90. Il lavoro dei minori, insieme a quello delle donne, è stato da sempre considerato meritevole di particolare attenzione, per ovvie ragioni di carattere biologico, etico e sociale..
Se lo Stato ha il dovere di emanare leggi a tutela ed in favore dei lavoratori, in considerazione del loro stato di subordinazione e di inferiorità nei confronti dei datori di lavoro, tale dovere diventa obbligo quando si è in presenza di categorie più deboli di lavoratori quali, il lavoratore di giovane età, la lavoratrice madre, il disabile e/o l’invalido.
I minori, come è stato giustamente osservato, non possono essere considerati degli “uomini in miniatura”. Non si possono, certo trascurare i loro particolari bisogni e le molteplici esigenze connesse ad un organismo in sviluppo, che potrebbe essere gravemente danneggiato con l’esposizione ai rischi di una attività lavorativa.
Le prime norme italiane di tutela del lavoro minorile, dopo l’Unità d’Italia furono le leggi 11 febbraio 1886, n.2657, 19 giugno 1902, n.242 e 7 luglio 1907, n.416, che riconoscevano la legittimità dell’intervento statale nel campo del lavoro minorile e femminile e, pertanto, stabilivano che i problemi del lavoro e della produzione non potevano ignorare le esigenze scolastiche, l’analfabetismo e la salute del lavoratore. Fissavano, inoltre, il limite minimo di età per l’occupazione dei fanciulli a 9 anni e stabilivano in 8 ore giornaliere l’orario di lavoro per i fanciulli inferiori agli anni 12.
Giungendo direttamente ai giorni nostri, è possibile ricostruire il quadro normativo in materia, secondo quanto segue.
L’art. 37 della Costituzione italiana sancisce la parità di diritti per la donna lavoratrice e per i minori lavoratori, tutelando il lavoro dei minori con speciali norme e garantendo ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità della retribuzione.
L’età minima per poter lavorare e le norme di tutela del lavoro al di sotto dei 18 anni di età sono stabilite in Italia da una serie di leggi nazionali speciali. Tra queste, la norma di riferimento più importante è la legge 17 ottobre 1967, n. 977, la quale, in armonia con i dettati costituzionali, assicurava una tutela rispondente al rapido progresso economico e tecnologico e armonizzava la legislazione nazionale agli impegni assunti con la ratifica delle convenzioni dell’OIL.
Con essa si stabiliva l’età di immissione dei fanciulli nei lavori agricoli (convenzione n. 10); il divieto del lavoro notturno dei fanciulli e degli adolescenti nelle attività industriali (convenzione n. 90) e non industriali (convenzione n. 79); gli esami medico- attitudinali per l’impiego dei fanciulli e degli adolescenti nelle attività industriali (convenzione n. 77) e non industriali (convenzione n. 78); il riposo settimanale (convenzione n. 14).
Non solo. Veniva fissato al compimento dei 15 anni di età, la soglia limite per l’ingresso del minore nel mondo del lavoro, (anche se per l’agricoltura, i servizi familiari e nei lavori leggeri, era previsto un abbassamento dell’età minima a 14 anni) e sempre che l’occupazione non comportasse trasgressioni dell’obbligo scolastico e fosse tutelata adeguatamente la salute psicofisica del minore stesso.
La legge de qua vietava, inoltre, la adibizione dei fanciulli e degli adolescenti ai lavori di trasporto e sollevamento pesi che superano una certa misura, al lavoro notturno, ai lavori faticosi ed insalubri;subordinava, poi, la partecipazione del minore e/o dell’adolescente alle rappresentazioni di spettacoli e alle riprese cinematografiche all’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro;e, infine, disciplinava l’orario di lavoro, i riposi intermedi e settimanali e le ferie.
Ma l’aspetto senza dubbio più rilevante era quello di dare a tutte le norme poste a tutela del lavoro minorile, il carattere della inderogabilità, con nullità di eventuali clausole contrattuali che non avessero rispettato i divieti e i limiti imposti dalla norma, e considerando, in questo modo, l’inosservanza ai divieti predetti, come reato al quale faceva seguito una contravvenzione. Il controllo circa il rispetto della normativa in questione era, poi, affidato al Ministero del Lavoro tramite gli Ispettorati del lavoro.
Alla legge 17 ottobre 1967, n. 977, seguiva, poi, tutta una serie di norme speciali, quali il D. Lgs. 9 settembre 1994, n. 566 ( in vigore dal 5.10.1994 e superato comunque dal 23.10.1999 dalla vigenza del D.Lgs. n.349/99 ) che, all’art.1, inaspriva le ammende e aggiungeva anche l’arresto, fino a sei mesi , per altre inadempienze quali inosservanza di riposi, orari di lavoro e ferie)[4]; Il capo II del D. Lgs. 19 dicembre 1994, n. 748 ( in vigore dal 26.aprile 1995) che modificava ulteriormente il regime sanzionatorio, e il D.Lgs. 4 agosto 1999, n.345 ( in vigore dal 23.10.1999) che, in attuazione della direttiva CE/ 94/33 del Consiglio del 22.6.18994 relativa alla protezione dei giovani sul lavoro, disponeva il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro e quindi anche dei minori
A questo sistema sanzionatorio si aggiungeva, Il D.P.R. n. 619/1980 di istituzione dell’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (art. 23 della L. n. 833 del 1978); il Decreto legislativo n. 345/1999 , attuazione della direttiva 94/33CE sulla protezione dei giovani sul lavoro e, nel 200, legge n. 148/2000, di ratifica ed esecuzione della Convenzione n. 182 sopra citata.
Come rispondono i genitori?
Gli artt. 600 e 602, rispettivamente sulla sulla riduzione in schiavitù e sull’acquisto di schiavi, così dispongono “Chiunque riduce una persona in schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito dalla reclusione da cinque a quindici anni. [Art. 600]. “Chiunque […] aliena o cede una persona che si trova in stato di schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù o se ne impossessa o ne fa acquisto o la mantiene nello stato di schiavitù […] é punito con la reclusione da tre a dodici anni. [art. 602].
L’art. 600 sexies c.p. rubricato Circostanze aggravanti e attenuanti al secondo comma prevede che “Nei casi previsti dagli articoli 600 bis, primo comma, e600 ter, nonché dagli articoli 600, 601 e 602, se il fatto è commesso in danno di minore, la pena è aumentata dalla metà ai due terzi se il fatto è commesso da un ascendente, dal genitore adottivo, o dal loro coniuge o convivente, dal coniuge o da affini entro il secondo grado, da parenti fino al quarto grado collaterale, dal tutore o da persona a cui il minore è stato affidato per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza, custodia, lavoro, ovvero da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio nell’esercizio delle loro funzioni ovvero se è commesso in danno di minore in stato di infermità o minoranza psichica, naturale o provocata.” .
Non solo. Va ricordato che, il nuovo diritto di famiglia che ha introdotto la pari potestà fra i due coniugi, ha fatto si che le forti sanzioni appena citate ricadano su entrambi i coniugi e non solo sul padre.
E’ importante evidenziare, comunque, che molto spesso, il genitore che manda a lavorare il proprio figlio, lo fa o per far fronte ad una drammatica situazione di indigenza economica a cui non riesce a far fronte, o anche per sottrarre il minore alle devianze ed insidie della strada.
Bisogna allontanarci, dunque, dall’idea di genitori necessariamente immorali e crudeli, ed evidenziare al contrario, come il sistema normativo sanzionatorio dovrebbe, in questi casi, mirare a colpire il maggiore responsabile del reato che, nel caso di specie, è ravvisabile solo ed esclusivamente nel datore di lavoro.
A chi trasgredisce e specula sui bambini si dovrebbero irrogare misure aggiuntive concrete e più severe. E al tempo stesso, sarebbe più ragionevole non perseguire sempre e in ogni caso, i genitori ma ricercare e cercare di arginare le cause che li hanno spinti ad una connivenza con i datori di lavoro che impiegano manodopera minorile contra-legem.
È per questo motivo che il Servizio Ispezione del Lavoro ogni qual volta reperisce un minore, oltre ad adottare i provvedimenti sanzionatori nei confronti del datore di lavoro e dei genitori (e non può farne a meno, pena la denuncia per omissione di atti di ufficio !), dovrebbe informare del caso sia il Sindaco del Comune di residenza del minore che il Tribunale dei minorenni, affinché costoro, attraverso i lori servizi sociali, accertino le vere cause che hanno indotto il genitore ad avviare il minore al lavoro e provvedano, se possibile, ad eliminarle.
Il lavoro nero minorile contra -legem , anche se non in enormi dimensioni, è un probelma che purtroppo, esiste nel nostro Paese e che deve preoccuparci e non lasciarci indifferenti.
La notizia di oggi è soltanto un segnale di quanto si nasconde dietro l’immagine di un Italia, oggi tanto gravata da problemi di ordine sociale, politico ed economico, ma da sempre impegnata e attenta alle questioni umanitarie, a maggior ragione quando si tratta di bambini.
Non è più ammissibile nel 2015, dover assistere ad immagini e storie come quella che oggi si commenta.
Sebbene l’approccio generale al fenomeno (così com’è, l’approccio delle grandi Organizzazioni internazionali prime tra tutte, l’ILO e l’UNICEF, da sempre impegnate in questa causa) sia evidentemente di tipo abolizionista, non ci si può illimitare ad esso.
Occorre intervenire severamente per migliorare il sistema di prevenzione e tutela in favore dei minori, aumentando se del caso, i controlli e aiutando a rompere quei meccanismi di omertà, connivenza e complicità che si celano dietro le realtà di lavoro più drammatiche. In questo senso, la lotta allo sfruttamento di lavoro minorile, diventa prima ancora, questione di solidarietà, cooperazione ed impegno sociale e politico in questo senso orientati.
Avv. Sabrina Caporale
Note
[1] Il riferimento più autorevole in ambito nazionale e internazionale è la Convenzione OIL[1] n. 138 sull’Età Minima Lavorativa, che si riferisce a tutti i settori economici in cui operano i minori,(indipendentemente dal fatto che a seguito della loro prestazione lavorativa essi ricevano o meno una retribuzione).
[2] L’ILO ha, poi, introdotto una ulteriore distinzione tra lavoro minorile (child work), sfruttamento minorile (child labour), lavori pericolosi (hazardous work), forme incondizionatamente inaccettabili di sfruttamento minorile (unconditional worst forms of chil labour) (ILO – IPEC- SIMPOC, 2002). P. 26.
Sul punto, anche la CGIL nel 2000, ha definito sfruttamento minorile, “qualsiasi tipo di lavoro produttivo svolto da un minore, al di fuori del contesto familiare, per terzi, e quindi, legato all’esigenza di soddisfare un bisogno primario di sussistenza economica”. (Paone & Teselli, 200, p. 39).
[3] Va ricordato che comunque gli strumenti internazionali dell’ONU, diventano vincolanti solo per gli Stati che li hanno sottoscritti e, ancor di più, ratificati, si tratta di un dato importante, perché la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia, ratificata dall’Italia nel 1991, è lo strumento internazionale che ha raggiunto il maggior numro di ratificazioni. Attualmente sono due gli Stati che non l’hanno sottoscritta: la Somalia (né sottoscritta, né ratificata), gli USA(sottoscritta ma non ratificata. Un successo analogo per la Convenzione ILO n. 182, relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile e all’azione immediata per la loro eliminazione. Questi sono la testimonianza più chiara e lampante dell’attenzione che il fenomeno della tutela dei diritti dei minori provoca negli Stati a livello internazionale.
[4] L’inasprimento delle pene di cui al D.Lgs. 9 settembre 1994, n. 566, rivisitato dall’art. 14 delD.Lgs. n. 345 /99, è stato sancito anche a carico dei genitori.