Ottimo lo spunto sulla definizione di “peculiare aspetto dinamico-relazionale del danneggiato”, mentre rimane l’equivoco interpretativo circa l’effettiva valenza tecnica della “invalidità permanente biologica” ai fini dell’esaustività del risarcimento del danno

Un giudizio relativo ad un sinistro stradale ha dato modo alla Terza Sezione Civile della Suprema Corte con l’ordinanza n. 7513 depositata il 27 marzo 2018, Relatore Dott. Marco Rossetti, di affrontare con grande spessore e con la consueta estrema chiarezza, la tematica definitoria del danno non patrimoniale con riferimento al danno biologico ed al suo aspetto dinamico-relazionale nell’ottica della personalizzazione della liquidazione richiesta.

Si tratta di un vero e proprio vademecum.

I fatti.

Un uomo riporta a seguito di un sinistro stardale, avvenuto in uno spostamento per motivi di lavoro, un’invalidità superiore al 38%.

Il giudice di prime cure aumenta del 25% la misura del risarcimento tenendo conto del grave e permanente danno dinamico-relazionale della vittima che, a seguito dell’incidente aveva dovuto rinunciare a tutta una serie di attività.

La Corte territoriale, accogliendo il ricorso dell’assicurazione, ritiene che non fosse dovuta la maggiorazione, essendo considerata normale la circostanza che in caso di invalidità alcune delle facoltà andassero perse.

Il danneggiato si è quindi rivolto in Cassazione con un articolato ricorso con ben undici motivi, alcuni dei quali accolti dagli Ermellini, ad eccezione di quelli sul danno biologico.

Il danno dinamico-relazionale

Gli Ermellini hanno precisato cosa sia il “danno dinamico-relazionale”, espressione utilizzata, per la prima volta, nel D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, in cui si stabilì che oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro fosse l’indennizzo del danno biologico, per poi ricomparire nella L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, con la quale si intervenne sulla disciplina dei danni causati dalla circolazione dei veicoli.

Assume rilievo anche il D.M. 3 luglio 2003, in cui si afferma che la commissione ministeriale incaricata di redigere la tabella delle menomazioni vi aveva provveduto assumendo a base del proprio lavoro la nozione di “danno biologico” desumibile sia dal D.Lgs. n. 38 del 2000, sia dalla L. n. 57 del 2001: ovvero la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, “la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato”.

Quindi, anche nel suddetto decreto, con l’espressione “compromissione degli aspetti dinamico-relazionali” non si volle indicare un danno a sé stante, ma venne usata come perifrasi del concetto di “danno biologico”.

Ed ancora, nell’ulteriore “Allegato 1” del suddetto testo, si soggiunge che “ove la menomazione incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali personali, lo specialista medico legale dovrà fornire motivate indicazioni aggiuntive che definiscano l’eventuale maggiore danno“. Pertanto, il danno biologico consiste in una “ordinaria” compromissione delle attività quotidiane; nel caso in cui esso, a causa della specificità del caso, abbia compromesso non attività comuni, ma attività “particolari”, ovvero i “particolari aspetti dinamico-relazionali”, di questa perdita dovrebbe tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente.

La decisione della Cassazione: evitare i “mantra”.

La Corte di Cassazione tenta di mettere ordine nel caos del danno non patrimoniale che, nell’ultimo decennio, nonostante l’intervento alla fine del 2008 delle Sezioni Unite con il notissimo quartetto di sentenze di San Martino, sembra essersi fatto ancora più fitto.

Gli Ermellini hanno osservato che in materia di danno non patrimoniale “la legge contiene pochissime e non esaustive definizioni; quelle coniate dalla giurisprudenza di merito e dalla prassi sono usate spesso in modo polisemico; quelle proposte dall’accademia obbediscono spesso agli intenti della dottrina che le propugna.

Accade così che lemmi identici vengano utilizzati dai litiganti per esprimere concetti diversi, ed all’opposto che espressioni diverse vengano utilizzate per esprimere il medesimo significato.
 Questo stato di cose ingenera somma confusione, ed impedisce altresì qualsiasi seria dialettica, dal momento che ogni discussione scientifica è impossibile in assenza d’un lessico condiviso.
L’esigenza del rigore linguistico come metodo indefettibile nella ricostruzione degli istituti è stata già segnalata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorchè hanno indicato, come precondizione necessaria per l’interpretazione della legge, la necessità di “sgombrare il campo di analisi da (…) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei “mantra” ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (…), (che) resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonchè la pigrizia esegetica” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).

La Corte ha stabilito che “il riconoscimento conseguente ad un determinato grado di invalidità riconosciuta, comporta la menomazione degli aspetti “dinamico relazionali”, conseguenza normale di un danno diverso”.

Naturalmente, caso diverso è quello in cui la particolarità del caso abbia reso più gravi le conseguenze della menomazione, tale da giustificare un aumento del risarcimento del danno biologico con l’aggiunta del danno morale.

Le dieci regole.

In virtù di tanto gli Ermellini hanno predisposto dieci regole per individuare e risarcire il danno alla salute, che riassumono i principi esposti nella sentenza:

  • l’ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale.
  • Il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomeno logicamente) unitaria.
  • “Categoria unitaria” vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.).
  • Nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell’illecito; e dall’altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici.
  • In sede istruttoria, il giudice deve procedere ad un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, dell’effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, opportunamente accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio.
  • In presenza d’un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).
  • In presenza d’un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.
  • In presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione).
  • Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza d’uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come è confermato, oggi, dal testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., così come modificati della L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, nella parte in cui, sotto l’unitaria definizione di “danno non patrimoniale”, distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello “morale”).
  • Il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell’uno come nell’altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria.

 

La parola passa adesso al giudice del rinvio.

 

Avv. Maria Teresa De Luca

 

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