Qualora il giustificato motivo oggettivo del licenziamento si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera

La vicenda

Il Giudice del lavoro del Tribunale di Padova aveva annullato il licenziamento intimato da una banca ad un proprio dipendente, quadro direttivo e direttore di filiale, ritenuto illegittimo poiché la società si era limitata ad affermare di avere soppresso la posizione di direttore di quella filiale e che le altre identiche posizioni erano già tutte coperte al tempo del recesso.

La Corte d’appello confermava siffatta pronuncia sostenendo che la banca, ai fini dell’assolvimento degli oneri riguardanti il c.d. repechage e alla luce dei parametri di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, avrebbe dovuto comparare la posizione del ricorrente con quelle di altri dipendenti in posizione equivalente o anche inferiore e, poiché ciò non era avvenuto, doveva essere confermata la declaratoria di illegittimità del licenziamento, con ogni relativa conseguenza. Peraltro, il dipendente aveva più volte rappresentato alla Direzione aziendale di essere anche disponibile a trasferirsi in altra sede e a svolgere qualsiasi altra mansione, anche inferiore, pur di evitare il licenziamento.

Per la cassazione della sentenza, la società datrice di lavoro ha proposto ricorso lamentando l’errata applicazione delle legge in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Ebbene, a detta della ricorrente tale fattispecie è regolata unicamente dalla L. n. 604 del 1966, art. 3 e non dalla L. n. 223 del 1991, art. 5 (applicata dalla corte territoriale) che detta i criteri di selezione dei lavoratori in ipotesi di licenziamento collettivo. Tale norma non è dunque applicabile al licenziamento individuale che, nella specie, era consistito nella scelta imprenditoriale, insindacabile ex art. 41 Cost., di sopprimere una posizione funzionale, con accorpamento delle relative funzioni in capo al direttore di quella filiale.

E che dunque, una volta accertata la reale soppressione di uno specifico posto di lavoro legato da nesso di causalità ad una determinata operazione di riorganizzazione, non occorreva effettuare alcun confronto intersoggettivo, senza che ciò comportasse alcuna violazione dei criteri di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c..

Ma il motivo non è stato accolto (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ordinanza n. 1802/2020).

La giurisprudenza della Suprema Corte ha già affermato che nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, allorquando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse (Cass. 19732 del 2018, che richiama Cass. n. 7046 del 2011; Cass. n. 11124 del 2004; Cass. n. 13058 del 2003; Cass. n. 16144 del 2001; Cass. n. 14663 del 2001).

In questa situazione, pertanto, al fine di individuare in concreto i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona fede si è ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che la L. n. 223 del 1991, art. 5, ha dettato per i licenziamenti collettivi per l’ipotesi in cui l’accordo sindacale ivi previsto non abbia indicato criteri di scelta diversi (Cass. n. 19732 del 2018, cit., nonché Cass. n. 6667 del 2002).

Il rispetto dei principi di buona fede e correttezza

Insomma, la comparazione tra dipendenti fungibili costituisce un criterio utilizzabile ai fini dell’osservanza dei principi di buona fede e correttezza quanto al riscontro dell’effettività e non pretestuosità della ragione organizzativa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo del licenziamento.

Inoltre, secondo l’orientamento oramai consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte “incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. repechage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore”. Sul datore di lavoro incombe, in altre parole, l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017).

La decisione

Di tali principi aveva fatto corretta applicazione la Corte d’appello laddove aveva ritenuto che la banca non avesse compiutamente assolto gli oneri processuali che le incombevano in ordine alla allegazione e prova dell’impossibilità di un utile ricollocamento del lavoratore all’interno dell’intera azienda, tanto più in presenza della dichiarata disponibilità del dipendente di accettare trasferimenti di sede e l’assegnazione a mansioni diverse, anche inferiori, pur di evitare il licenziamento.

Peraltro, l’accertamento dei fatti sottostanti a tale ricostruzione non erano neppure contestati in giudizio. Per queste ragioni la sentenza impugnata è stata confermata e il ricorso rigettato, con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

La redazione giuridica

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