Licenziamento per sopravvenuta inidoneità e obbligo di repêchage: il punto

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In caso di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro, ai fini della legittimità del licenziamento

La vicenda

Una guardia giurata aveva impugnato il licenziamento a lui intimato dalla società datrice di lavoro per sopravenuta inidoneità.

Il giudice di primo grado accolse il ricorso confermando l’illegittimità del recesso datoriale per violazione dell’obbligo di repêchage.

Avverso la detta sentenza, la società datrice di lavoro propose reclamo dinanzi alla Corte di appello di Napoli che confermò la sentenza impugnata, ritenendo che quest’ultima non avesse dato piena prova dell’impossibilità di repêchage del proprio dipendente nella organizzazione aziendale attraverso la produzione dell’organigramma dal quale risultava che tutte le postazioni di lavoro presso i vari clienti dell’Istituto di vigilanza erano stabilmente occupate, ossia che non vi erano postazioni vacanti in cui ricollocare il dipendente.

La pronuncia della Corte d’Appello

In particolare, secondo i giudici della Corte territoriale, “considerata la perfetta omogeneità e fungibilità delle mansioni svolte dai vari dipendenti della società, vi sarebbe stata la possibilità, da parte di quest’ultima, di adibire il ricorrente a postazioni compatibili con il suo stato di salute senza alcuna alterazione dell’assetto aziendale stabilito dalla stessa”. Tra l’altro, il predetto lavoratore non era stato considerato assolutamente inidoneo alle mansioni di pertinenza di guardia giurata, ma presentava solo delle limitazioni, e poiché la sua posizione di lavoro non era stata soppressa, “nulla impediva all’azienda di reperire all’interno della sua organizzazione delle postazioni di lavoro compatibili con il nuovo stato di salute, magari spostando qualche dipendente da una posizione lavorativa all’altra, attesa la piena fungibilità ed omogeneità delle mansioni, ovvero facendo turnare il reclamato con altri dipendenti impegnati solo in turni diurni e in postazioni più congrue con il suo stato di salute.”

In altre parole, secondo la Corte d’Appello, non si sarebbe trattato di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda, ossia di creare una posizione lavorativa ad hoc per il ricorrente, ma di individuare tra le posizioni esistenti quella compatibile con le sue condizioni di lavoro facendolo lavorare solo nel turno diurno ed in postazioni non richiedenti prolungate posizioni in piedi e non presso le banche dove più alto è il rischio di rapine.

Il ricorso per Cassazione

Contro tale pronuncia la società di vigilanza ha proposto ricorso per cassazione lamentando l’erroneità in diritto della sentenza impugnata, che aveva considerato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per insussistenza del giustificato motivo oggettivo.

Secondo la ricorrente la sentenza impugnata aveva imposto erroneamente a suo carico un onere probatorio relativamente a un fatto per il quale, secondo la legge, non è previsto il sindacato del giudice, cioè la modifica dell’organizzazione aziendale per mano giudiziaria.

In altre parole, secondo la società di vigilanza il principio applicabile in materia di repêchage sarebbe quello per cui il diritto del lavoratore licenziando ad essere collocato in altra posizione aziendale sussiste per le mansioni equipollenti e, pure, con il suo consenso, mansioni inferiori, ma solo ove tali mansioni risultino scoperte nell’organigramma.

Nel caso di specie, il lavoratore non aveva contestato l’organigramma aziendale, dal quale emergeva che non vi erano posizioni “vacanti” su cui poterlo ricollocare, di quì la legittimità del licenziamento.

La Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, sentenza n. 34132/2019) ha accolto il ricorso perché fondato.

La fattispecie in esame si colloca, ratione temporis, nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, come integrato dal D.L. n. 76 del 2013 (convertito con modificazioni in L. n. 99 del 2013), disposizione tesa a recepire l’art. 5 della direttiva n. 78/2000/CE DEL 27.11.2000 in materia di “accomodamenti ragionevoli” per garantire il principio del rispetto della parità del trattamento dei disabili sul luogo di lavoro.

L’art. 3, comma 3 bis, – ha ribadito la Suprema Corte – è stato preso in considerazione dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare con le sentenze n. 6798 e n. 27243 del 2018.

La prima ha affermato che, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, obbligo che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

Con la seconda, si è statuito che, sempre in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido – ai fini della legittimità del recesso, in applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

Quest’ultima sentenza ha ricostruito come segue il quadro normativo.

L’art. 5 della Direttiva stabilisce che: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti accomodamenti ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di aver una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. “Tale soluzione – hanno chiarito gli Ermellini – non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore delle persone con disabilità”.

L’art. 3, comma 3-bis recita: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, del 13 dicembre 2006, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.

Nel caso di specie, ciò che era mancato nell’analisi della sentenza impugnata era proprio la valutazione della proporzionalità e della non eccessività delle misure di adattamento in essa indicate sia rispetto all’organizzazione aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori. Valutazione cui dovrà provvedere il giudice di rinvio.

La redazione giuridica

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