In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, grava sul datore di lavoro l’onere di allegare e provare il CCNL applicabile al rapporto, ai fini della legittimità del recesso
La vicenda
La Corte d’Appello di Reggio Calabria aveva confermato la declaratoria, pronunciata dal giudice di prime cure, di illegittimità del licenziamento intimato da una società ad un proprio dipendente per superamento del periodo di comporto.
A sostegno del decisum, la Corte d’appello, accertata la durata della malattia nella misura di 237 giorni continuativi, aveva condiviso l’iter argomentativo seguito dal primo giudice, secondo cui non era applicabile nella fattispecie in esame, il contratto collettivo del settore terziario che prevedeva un periodo di comporto pari a 180 giorni, recependo invece, la prospettazione del lavoratore in ordine alla applicabilità del (diverso) contratto collettivo recante l’indicazione del periodo di comporto nella misura di 365 giorni.
La corte di merito era giunta a tale conclusione rilevando come la società non avesse dimostrato, secondo l’onere su di essa gravante, la propria adesione alla Confcommercio; nè i riferimenti contenuti nella lettera di assunzione e nelle buste paga versate in atti, erano sufficienti a provare detta affiliazione, non avendo, la società, prodotto il c.c.n.l. del settore terziario.
Quest’ultima ha, perciò, proposto ricorso per Cassazione, fondato su due motivi. In primo luogo lamentava la violazione del consolidato principio giurisprudenziale in base al quale la parte che invoca l’applicazione di un contratto collettivo post corporativo avente natura privatistica, ha l’onere di dimostrare l’esistenza e l’applicabilità del contratto al rapporto di lavoro.
Ebbene, nello specifico, a sua detta, il lavoratore non aveva dimostrato l’applicabilità del contratto collettivo richiamato nè l’effettiva applicazione, con implicita adesione, delle parti alla contrattazione collettiva indicata.
La questione sottoposta al vaglio della Sezione Lavoro della Cassazione, è stata in realtà – come sottolineato dagli stessi Ermellini – oggetto di consolidati approdi giurisprudenziali.
Più in particolare, è stato affermato il principio di diritto secondo cui “i contratti collettivi di lavoro non dichiarati efficaci “erga omnes” ai sensi della L. 14 luglio 1959, n. 741, costituendo atti di natura negoziale e privatistica, si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti” (vedi Cass. 8/5/2009 n. 10632).
È stato altresì affermato che, ove una delle parti faccia riferimento, per la decisione della causa, ad una clausola di un determinato contratto collettivo di lavoro, non efficace “erga omnes“, in base al rilievo che a tale contratto entrambe le parti si erano sempre ispirate per la disciplina del loro rapporto, il giudice del merito ha il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata (Cass. 3/8/2000 n. 10213).
La decisione
Ebbene, in linea con questi principi di diritto, i giudici del merito avevano rilevato che la società non avesse dato dimostrazione della propria adesione alla associazione Confcommercio, circostanza che avrebbe consentito di ritenere dimostrata l’applicabilità alla fattispecie, della contrattazione collettiva invocata.
Una simile conclusione – ha aggiunto la Sezione Lavoro – non appare contraria al principio di ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. invocato dalla parte ricorrente, perché conforme al principio, del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 28/9/2018 n. 23596 in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto), in base al quale in ipotesi di impugnativa di licenziamento, grava sul datore di lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5 l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso; fatti che indubbiamente comprendono l’intervenuto superamento del periodo di comporto, nei sensi definiti dalla contrattazione collettiva di settore”.
Il ricorso è stato perciò, rigettato con conseguente condanna del lavoratore al pagamento delle spese di giudizio.
La redazione giuridica
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