Una discussione con i colleghi nei locali aziendali non configura un inadempimento disciplinarmente rilevante ai fini del licenziamento; il Tribunale di Bari ha perciò condannato il datore di lavoro a reintegrare la dipendente

La vicenda

La ricorrente aveva dedotto di aver lavorato alle dipendenze della società convenuta con mansioni di cameriera di bar inquadrata nel V livello del CCNL per i dipendenti da Aziende del Terziario Distribuzione e Servizi, dall’ottobre del 2016; senonché nel mese di giugno dell’anno successivo riceveva la comunicazione del licenziamento: ” In seguito alla discussione avvenuta nei locali aziendali con i suoi colleghi, (…), dopo i chiarimenti verbali con i responsabili aziendali, venendo meno i presupposti per una serena convivenza nell’ambiente di lavoro, indispensabile per il proseguo dell’attività lavorativa, Le comunichiamo il recesso dal rapporto di lavoro. Pertanto, La esoneriamo dal prestare servizio durante il periodo di preavviso contrattualmente stabilito, il rapporto deve intendersi risolto con la data odierna …”. Invero, tale missiva non era stata preceduta da alcuna contestazione disciplinare; cosicché la lavoratrice impugnava il licenziamento in quanto nullo, inefficace e privo di giusta causa con raccomandata a/r, cui la società datrice di lavoro rispondeva ribadendo la presunta bontà del proprio operato. Tanto premesso, la ricorrente chiedeva la reintegra nel posto di lavoro, oltre al pagamento in suo favore di una indennità risarcitoria.

Il Tribunale di Bari, chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, ha accolto la domanda perché fondata (Sezione Lavoro, sentenza n. 80/2020).

Invero, la documentazione versata in atti aveva dimostrato la piena fondatezza dell’impugnativa di licenziamento.

Nella comunicazione di recesso, non preceduta da alcuna contestazione disciplinare, la società aveva fatto  unicamente riferimento a una discussione con i colleghi avvenuta nei locali aziendali, a seguito della quale sarebbero venuti meno i presupposti per la prosecuzione del rapporto lavorativo.

Ma per il giudice barese, l’accadimento posto a fondamento dell’addebito (discussione con i colleghi) non era connotato da alcuna aggettivazione che consentisse di comprenderne la portata, l’entità, i termini e le modalità di svolgimento: nulla era stato specificato, dedotto o dimostrato in giudizio, essendo la società convenuta rimasta contumace.

La ricorrente aveva peraltro negato di essersi mai resa protagonista di alcuna discussione, sicché, nella assoluta mancanza di elementi offerti dalla controparte, è stata acclarata l’insussistenza del fatto materiale contestato.

L’illegittimità del licenziamento

“È appena il caso di rilevare – ha aggiunto il giudice pugliese – che, pur ove la fantomatica discussione fosse realmente avvenuta, difficilmente essa avrebbe potuto fondare un licenziamento legittimo, posto che una mera discussione con i colleghi nei locali aziendali, così come descritta nella lettera di recesso, di certo non configura un inadempimento disciplinarmente rilevante.”

Sul tema si rinvia all’orientamento giurisprudenziale secondo cui ”In tema di licenziamento disciplinare, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare” (Cass. Sez. L, Sentenza n. 12174 del 08/05/2019).

Con riferimento alla tutela applicabile, il Tribunale di Bari ha ricordato che la nuova disciplina applicabile ha comportato una restrizione dei casi nei quali, in conseguenza dell’illegittimità del licenziamento, può farsi luogo alla reintegra del lavoratore: ciò è infatti possibile nel caso di licenziamento nullo (art. 2 d.lgs. 23/2015), in quanto discriminatorio o riconducibile ad altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, nonché nel caso di licenziamento intimato in forma orale.

La tutela reintegratoria

Residua la tutela reintegratoria anche nel caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, qualora, a prescindere da qualsiasi valutazione circa la proporzionalità della sanzione adottata, sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (solo per le ipotesi in cui sussistano i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 co. 8 e 9 della legge n. 300/1970).

Invece, negli altri casi di assenza di giusta causa o giustificato motivo, al lavoratore può essere riconosciuta una tutela di tipo esclusivamente indennitario.

La novella legislativa ha dunque mantenuto per il licenziamento disciplinare la reintegrazione, ma solo come tutela eccezionale, in quanto limitata all’ipotesi in cui sia direttamente accertata l’insussistenza del fatto materiale contestato.

Ebbene, nella presente fattispecie sono stati ritenuti pacificamente sussistenti i presupposti per l’operatività della c.d. tutela reale ex art. 3 co. 2 d.lgs. 23/2015.

In definitiva, il licenziamento è stato annullato, con condanna della società datrice di lavoro alla reintegrazione della propria dipendente e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità (che costituisce il limite massimo, ai sensi dell’art. 3 co. 2 d.lgs. 23/2015) dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

La società è stata inoltre condannata al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.

La redazione giuridica

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