La presunzione di fatto di appartenenza al nucleo familiare minimo fa scattare, anche presuntivamente, il diritto al ristoro del danno da perdita del rapporto parentale (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 7 ottobre 2024, n. 26185).
Chiamata in causa davanti al Tribunale di Venezia è l’Autorità portuale del Mare Adriatico Settentrionale per i danni da lesione del rapporto parentale rispettivamente subiti in conseguenza della morte del congiunto (anni 73), in data 25 gennaio 2014, a causa del mesotelioma pleurico contratto per le inalazioni di amianto subite durante il lavoro prestato come addetto a carico-scarico e movimentazione merci fino al 1975.
La vicenda giudiziaria
Il Tribunale ha condannato la convenuta al pagamento:
- in favore delle 2 figlie, della somma di 239.182,36 euro ciascuna, oltre interessi legali dalla data della decisione al saldo, comprensiva del danno iure proprio da esse subito (liquidato in 192.259,68 euro ciascuna) e della quota loro spettante, quali eredi della madre O.A., deceduta, all’età di 71 anni, nel 2014, del risarcimento a quest’ultima riconosciuto per la stessa causale, liquidato nell’intero in 187.690,72 euro.
- in favore dei 7 nipoti del defunto, della somma di 27.142,54 euro ciascuno.
- ha invece rigettato l’analoga domanda risarcitoria avanzata dai 2 fratelli del defunto, avendo escluso la sussistenza del danno parentale da essi dedotto, attese le “scarne e non pienamente pertinenti deduzioni di parte attrice sul punto”.
La Corte d’appello di Venezia ha leggermente rimodulato gli importi liquidatori, in particolare maggiorando quello spettante alla vedova del defunto, e riconfermato nel resto il primo grado.
In relazione alla doglianza dei fratelli del defunto ha rilevato testualmente in motivazione: “Il motivo non è fondato, poiché tutto è affidato al rilievo che “il Porto datore di lavoro di tutti, non ha contestato che i tre fratelli fossero colleghi di lavoro (art. 167 c.p.c.). Quindi la morte di uno per amianto scatena il terrore di tutti per il timore della stessa sorte”.
La Corte, in sintesi, non ha riconosciuto il risarcimento del pregiudizio non patrimoniale da perdita del rapporto parentale dei 2 fratelli, non avendo essi offerto prova adeguata a valutare il rapporto affettivo con la vittima.
Il ricorso in Cassazione dei due fratelli del defunto
Anche dinanzi alla Cassazione i 2 fratelli esclusi dai Giudici di merito denunciano il mancato riconoscimento del loro diritto, in qualità di fratelli della vittima ad esser risarciti del danno da perdita del rapporto parentale. I due argomentano che “non vi è un onere di prova dell’affetto (vi è una presunzione di rapporto affettivo connesso al rapporto parentale) propria delle relazioni parentali considerate dalle tabelle di liquidazione”.
Insistono anche sulla circostanza di essere stati anche colleghi di lavoro della vittima e di avere vissuto nel terrore di contrarre la stessa malattia e ciò avrebbe accentuato la loro sofferenza.
Il motivo è fondato e viene accolto.
Riguardo la liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale, nel caso in cui si tratti di congiunti appartenenti alla cd. famiglia nucleare (e cioè coniugi, genitori, figli, fratelli e sorelle) la perdita di effettivi rapporti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto può essere presunta in base alla loro appartenenza al medesimo “nucleo familiare minimo”, nell’ambito del quale l’effettività di detti rapporti costituisce tutt’ora la regola, nell’attuale società, in base all’id quod plerumque accidit, fatta salva la prova contraria – anche presuntiva – da parte del convenuto.
La Corte veneta non ha applicato tale principio negando il risarcimento ai fratelli della vittima totalmente “dimenticandosi” del valore presuntivo ascrivibile allo stretto vincolo formale di parentela che li legava alla vittima, in mancanza di alcuna allegazione o emergenza contraria idonea a far venir meno la presunzione di fatto da esso derivante.
Il criterio tabellare di liquidazione del danno parentale
Venendo al ricorso incidentale, l’Autorità Sistema Portuale lamenta erronea applicazione del criterio tabellare di liquidazione del danno parentale in relazione alla posizione della vedova della vittima primaria, omettendo di valorizzare, quale elemento riduttivo del calcolo, la ridotta durata della sopravvivenza della stessa, deceduta nello stesso anno, poco più di 10 mesi dopo la morte del marito.
Anche questa censura è fondata.
Altrettanto consolidato è il principio di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi: il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti e la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, da valutarsi, comunque, in ragione della particolarità e della eventuale eccezionalità del caso di specie.
I Giudici di appello hanno applicato il sistema tabellare di Roma, ma non hanno valutato la breve durata della vita residua della vedova della vittima primaria.
Le osservazioni dell’avvocato Foligno
A distanza di quasi 5 anni dal consolidamento dei due principi sopra scandagliati, ancora i Giudici di merito sbagliano clamorosamente nel liquidare il danno da perdita del rapporto parentale.
Prendendo spunto dalla significativa Cass. 26301/2021, il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. È il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a se stessi nel mondo.
Proprio per tale motivo è altrettanto consolidato il ragionamento secondo cui per il danno dinamico/relazionale la durata della vita residua del danneggiato ha una incidenza tale per cui l’entità delle conseguenze pregiudizievoli che bisogna risarcire cresce in proporzione diretta alla durata della vita residua del danneggiato (perché fenomenicamente quelle conseguenze inevitabilmente si moltiplicano nell’esplicarsi delle attività della vita quotidiana).
Invece per il danno parentale, nella sua componente preminente di lutto e dolore interiore, la sofferenza da risarcire ha una dimensione atemporale che la fa avvertire nella sua massima intensità nel tempo immediatamente successivo all’evento e che col tempo è destinata, non certo a scomparire, ma a mutare; il protrarsi più o meno a lungo di tale sofferenza interiore non la fa “incrementare”, ma solo la fa vivere più a lungo, e questo è un elemento da apprezzare ai fini del calcolo in aumento, del risarcimento, ma in misura diversa e più limitata rispetto a quanto occorre fare per l’altro tipo di danno.
L’errata applicazione del criterio tabellare di liquidazione del danno parentale
La Corte veneta ha applicato il punto aggiuntivo 2 in considerazione dell’età della vedova alla data dell’evento (71 anni):
Tabella di riferimento: Roma 2019; Valore del Punto Base: Euro 9.806,70; Punti riconosciuti per il grado di parentela: 20; Punti in base all’età del coniuge: 2; Punti in base all’età della vittima: 2; Punti per la convivenza tra il coniuge e la vittima: 4; Punti per l’assenza di altri familiari conviventi: 3; Punti totali riconosciuti 31.
Invece, l’accertata breve durata della sopravvivenza della moglie (rispetto alla vittima primaria) avrebbe dovuto essere valorizzata attribuendo un punto aggiuntivo inferiore, pari ad 1 perché la tabella romana, anche nella sua versione più aggiornata del 2023, indica tale valore genericamente per congiunti di età superiore ad anni 81 e senza alcun limite di età.
Il secondo clamoroso errore, come visto, riguarda la liquidazione del danno preteso dai 2 fratelli della vittima. È del tutto pacifico, che in caso di appartenenti alla medesima “famiglia nucleare”, la perdita può essere presunta in base alla loro appartenenza al medesimo nucleo familiare minimo. Addirittura, sul punto, la S.C. è arrivata finanche ad affermare che l’esistenza dei rapporti familiari tra i componenti della famiglia nucleare costituisce la regola, nell’attuale società, in base all’id quod plerumque accidit.
Avv. Emanuela Foligno