Chi è il soggetto legittimato a nominare un amministratore di sostegno? Nella vicenda in esame si discute in ordine alla legittimità della nomina di un amministratore di sostegno da parte di un paziente gravemente malato, al fine di rifiutare le trasfusioni di sangue necessarie a tenerlo in vita

La vicenda

Con ricorso al giudice tutelare di Savona, la ricorrente aveva chiesto di confermare la sua nomina quale amministratore di sostegno del marito, a norma degli artt. 404 c.c. e ss., essendo già stata designata, da quest’ultimo con precedente scrittura privata e con procura speciale autenticata.
Ma l’adito giudice respingeva il ricorso, ritenendo il marito “allo stato, pienamente capace d’intendere e di volere”.
La sentenza, confermata in appello, è stata impugnata davanti ai giudici della Cassazione.
Ed infatti, la corte territoriale, nel ribadire la valutazione di piena capacità dell’uomo, aveva asserito che il diritto di rifiutare determinate terapie è al di fuori dell’ambito d’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, trattandosi di diritto azionabile autonomamente in giudizio e non tutelabile, in via indiretta, mediante l’istituto in questione.

Il ricorso per Cassazione

Il ricorso formulato dai due ricorrenti si fondava essenzialmente sull’errore di diritto commesso dai giudici di merito consistente nell’aver ritenuto l’art. 404 c.c., applicabile ai soli casi di totale incapacità d’intendere e di volere, mentre – a detta dei ricorrenti –  la norma in questione contempla il concetto di “infermità”, ossia una malattia o patologia fisica o mentale, non necessariamente involgente una totale incapacità di provvedere ai propri interessi, che può anche essere parziale e temporanea.
La corte territoriale non avrebbe neppure esaminato la documentazione medica prodotta, omettendo, perciò, di valorizzare la patologia diagnosticata (Malformazione artero-venosa- MAV), la quale determinava l’impossibilità per l’uomo di comunicare la propria decisione, consistente in una sostanziale obiezione di coscienza, di non sottoporsi alle trasfusioni di sangue nel corso delle crisi emorragiche da cui era colpito, trasfusioni ritenute chiaramente necessarie per la cura.
I ricorrenti inoltre, lamentavano il fatto che il giudice di secondo grado, senza neppure aver sentito l’uomo  – comparso in appello- avesse ritenuto che la domanda di nomina dell’amministratore di sostegno riguardava un’eventualità futura e non invece attuale (cioè l’impossibilità di opporsi alle trasfusioni emetiche).
In tal modo avrebbe violato la Costituzione in ordine al diritto di rifiutare le cure trasfusionali nella piena consapevolezza delle conseguenze prospettate di tale omissione, nonché la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e finanche la Convenzione sui Diritti Umani e la Biomedicina. Senza contare della violazione dei diritti inerenti la persona, la sua libertà, dignità e il diritto al rispetto della vita privata e familiare, la libertà di coscienza e di religione.

La pronuncia della Cassazione

Chiamati a pronunciarsi sulla vicenda i giudici della Cassazione hanno accolto l’impugnazione dei ricorrenti ritenendo di non poter condividere l’assunto della decisione impugnata.
L’applicazione dell’amministrazione di sostegno presuppone la sussistenza di una ipotesi nella quale una persona sia priva, in tutto o in parte, di autonomia – non solo a cagione di una infermità di mente, come nel caso dell’interdizione, ai sensi dell’art. 414 c.c. – bensì anche per una qualsiasi altra “infermità” o “menomazione fisica”, anche parziale o temporanea, che lo ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi.
Per tale motivo, il giudice – è tenuto, in ogni caso, secondo lo schema normativo dell’art. 404 c.c. a nominare un amministratore di sostegno poiché la discrezionalità attribuita dalla norma ha ad oggetto solo la scelta della misura più idonea (amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione), e non anche la possibilità di non adottare alcuna misura, che comporterebbe la privazione, per il soggetto incapace, di ogni forma di protezione dei suoi interessi, ivi compresa quella meno invasiva.
Ne discende che soltanto la persona che si trovi nella piena capacità psico-fisica non è legittimata a richiedere l’amministrazione di sostegno, presupponendo l’attivazione della procedura, la sussistenza della condizione attuale d’incapacità, in quanto l’intervento giudiziario non può essere che contestuale al manifestarsi dell’esigenza di protezione del soggetto.
Ora, nel caso concreto, la Corte territoriale – nel fondare il diniego di apertura della procedura in questione, sull’erroneo presupposto della sussistenza della capacità di intendere e di volere del beneficiario – non aveva tenuto conto della gravissima patologia della quale l’uomo è portatore (MAV- malformazione artero-venosa).
Tale malattia comportava emorragie continue, con conseguente “instaurarsi di shock emorragico e rapida perdita della coscienza oltre alla compromissione delle funzioni vitali”, quali la parola.
Tanto è vero che dalle risultanze mediche era emerso che l’uomo faceva il più delle volte utilizzo del computer per esprimersi..

Legittima la nomina dell’amministratore di sostegno

La designazione della moglie quale amministratrice di sostegno del marito era perciò avvenuta legittimamente sulla base del paradigma normativo fissato nell’art. 408 c.c., comma 1, a norma del quale “l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato in previsione della propria eventuale futura incapacità“.
E ciò al fine precipuo di esprimere, in caso di impossibilità del marito, il dissenso alla somministrazione di trasfusioni a base di emoderivati.
La ragione per cui si richiede la nomina dell’amministratore di sostegno – consistente proprio nel palesare ai sanitari tale rifiuto come quello espresso dal malato, in ordine alla negazione del consenso ai trattamenti medici futuri fondati sulle trasfusioni di sangue e già, espresse con la scrittura privata.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità, dopo aver espresso il principio generale per cui “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e che, in ogni caso, “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, ha da tempo chiarito che in tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.

Il rifiuto delle cure mediche

Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio nel quadro dell’”alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno.
Ma allorché il rifiuto abbia connotati quali quelli emersi nel caso in esame, «non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Nè il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, (omicidio del consenziente, art. 579 c.p., o aiuto al suicidio, art. 580 c.p.), ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale».
Del resto, «il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma -altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale» (Cass. 16/10/2007, n. 21748).
Ciò assume connotati ancora più forti, degni di tutela e garanzia, laddove il rifiuto del trattamento sanitario rientri e sia connesso all’espressione di una fede religiosa il cui libero esercizio è sancito dall’art. 19 Cost..

La giurisprudenza comunitaria

In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza Europea, secondo la quale “In materia di cure mediche, il rifiuto di accettare un trattamento particolare potrebbe, in maniera ineluttabile, portare a un esito fatale, ma l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso del paziente se adulto e sano di mente si tradurrebbe in una violazione dell’integrità fisica dell’interessato che può mettere in discussione i diritti protetti dall’art. 8 § 1 della Convenzione”. Come ha ammesso la giurisprudenza interna, una persona può rivendicare il diritto di esercitare la propria scelta di morire rifiutandosi di acconsentire a un trattamento che potrebbe produrre l’effetto di prolungare la sua vita.” (Corte EDU, 29/04/2002, Pretty c. R.U.) Ed ancora, il diritto di un individuo di decidere in quale modo e in quale momento la sua vita deve terminare, a condizione che egli sia in grado di formare liberamente la propria volontà a questo proposito e di agire di conseguenza, è uno dei corollari del diritto al rispetto della sua vita privata (Corte EDU, 20/01/2011, Haas c. Svizzera).
Per tutti questi motivi, la decisione impugnata è stata cassata con rinvio per evidente erronea applicazione di legge.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 
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