La piccola, presa in carico all’ospedale Bambino Gesù di Roma subito dopo la nascita, presentava una malattia gravissima e sconosciuta. Oggi è guarita e non presenta più segni della patologia

E’ nata con una malattia gravissima e sconosciuta caratterizzata da pelle piena di macchie, febbre alta continua, gravi carenze di cellule nel sangue (globuli rossi, globuli bianchi, piastrine). Due settimane dopo essere venuta al mondo la piccola viene presa in carico dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma per essere seguita dai medici di onco-ematologia e reumatologia. Dopo aver trascorso  i primi sette mesi di vita in isolamento in Ospedale, nel tentativo di identificare la sua malattia o almeno tenerla sotto controllo, arriva il primo successo. Grazie a un farmaco biologico, che riesce a contenere gli eccessi infiammatori provocati dalla patologia ancora sconosciuta, la bambina migliora e per la prima volta può tornare a casa. 

Purtroppo però dopo pochi mesi la situazione peggiora improvvisamente con l’insorgere di sintomi nuovi tra cui nuove riaccensioni auto-infiammatorie, emorragie intestinali e crisi convulsive. Da li la necessità di cambiare terapia e il trascorrere di altri mesi all’insegna della preoccupazione e dell’incertezza, tra ricadute e ricoveri continui.

Nel frattempo la bambina viene inserita nel programma di ricerca dedicato alle malattie rare e senza diagnosi basato sull’uso delle nuove tecnologie genomiche, finanziato dalla campagna Vite Coraggiose della Fondazione Bambino Gesù onlus.

Grazie alle piattaforme di sequenziamento di ultima generazione, i ricercatori arrivano a identificare una mutazione potenzialmente implicata nella malattia, su un gene chiamato CDC42.

Un gene di cui erano state precedentemente individuate dagli stessi ricercatori dell’Ospedale altre mutazioni associate a diverse malattie del neurosviluppo. Quindi inizia la ricerca incrociata sui database mondiali di malattie rare che porta a scoprire solo altri 4 casi al mondo, quasi tutti purtroppo con esito drammatico.

Gli studiosi si concentrano sulla ricerca di una terapia: differentemente dalle altre malattie causate da mutazioni in CDC42, la condizione della bambina è essenzialmente limitata alle cellule del sangue. Sulla base di questa considerazione e dei dati prodotti dalla ricerca, si ritiene che il trapianto di midollo, quindi la sostituzione delle sole cellule del sangue, possa sconfiggere la malattia.

Nella primavera del 2017 la bambina presenta una ricaduta infiammatoria con un infarto intestinale. Nonostante la sua condizione, si decide di sottoporla a intervento chirurgico per scongiurarne la morte. Dopo 4 ore, esce dalla sala operatoria e torna in rianimazione, ma le sue condizioni risultano più critiche che mai: ha sviluppato infatti una iper-infiammazione che fa temere ai medici il peggio. 

I clinici decidono di usare, in via compassionevole, un altro farmaco sperimentale, l’emapalumab, usato fino ad allora solo su 15 bambini.

Si tratta di un anticorpo monoclonale che serve a controllare l’esasperata risposta infiammatoria nei pazienti con HLH (Linfoistiocitosi Emofagocitica primaria).

Il farmaco funziona, persino oltre le aspettative: la fase acuta passa in pochi giorni e la bambina sta subito meglio. È quindi possibile finalmente procedere con la fase finale della terapia: il trapianto di midollo. La piccola non ha però un donatore compatibile e si deve quindi ricorrere a uno dei due genitori (trapianto aploidentico), in questo caso il papà: si tratta di una procedura complessa basata sulla manipolazione delle cellule staminali emopoietiche prelevate dal donatore, per privarle selettivamente di tutti gli elementi che potrebbero aggredire l’organismo del ricevente.

L’intervento ha successo. Oggi la bimba è guarita e non presenta più segni della malattia.

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