Medico muore dopo turno di 16 ore, equo indennizzo non esclude responsabilità del datore

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Medico colpito da infarto a causa dei turni massacranti

Un medico anestesista muore di infarto dopo un turno di 16 ore. Dopo una denuncia, l’autorità giudiziaria aveva avviato un procedimento penale a carico del primario ad interim e responsabile dell’U.O. di Anestesia e del medico addetto al turno di reperibilità la notte dell’evento. In questa vicenda il riconoscimento dell’equo indennizzo per causa di servizio non esclude la responsabilità del datore di lavoro. L’azienda resta tenuta a garantire tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica del lavoratore, valutando il nesso causale tra prestazione lavorativa e evento mortale ai sensi dell’art. 2087 c.c. (Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, ordinanza 7 ottobre 2025, n. 26923).

La vicenda

Il medico era rimasto in servizio tutta la notte dell’11 agosto, nel corso della quale partecipava ad un intervento d’urgenza e aveva, poi, continuato a monitorare il decorso post-operatorio della paziente anche nelle ore seguenti. Alle ore 7 del mattino del 12 agosto il medico era stato colto da infarto del miocardio al quale era seguito il decesso, nonostante le manovre rianimatorie apprestate dai colleghi.

Su istanza della coniuge, era stato riconosciuto l’infortunio per causa di servizio ed era stato liquidato un equo indennizzo agli eredi. Secondo i congiunti della vittima, il medico era deceduto a causa dell’eccessivo carico di lavoro. Il Tribunale rigetta la domanda condividendo le risultanze della CTU disposta in sede di incidente probatorio nel giudizio penale, che concludeva per l’assenza del nesso di causalità tra il decesso del medico, determinato dall’infarto, e lo svolgimento dell’attività lavorativa sulla base delle modalità come accertate in fatto.

In secondo grado, la Corte d’appello, sulla base di nuova CTU, ritiene che il turno espletato dalla vittima tra l’11 ed il 12/08/2007 – dopo che il predetto aveva goduto di 23 giorni di riposo compensativo nel mese di luglio e non aveva prestato servizio nei quattro giorni antecedenti a quello dell’evento, salvo che per un’ora e 43 minuti per turno di reperibilità il 10 agosto – non poteva aver svolto alcun ruolo, neppure sotto il profilo concausale efficiente e determinante rispetto all’evento mortale, tenuto conto che non risultava essere stato caratterizzato da particolari abnormi responsabilità professionali o da eccezionali disagi tali da prevalere nell’insorgenza o nella successiva evoluzione dell’infermità.

L’intervento della Cassazione

La Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere che l’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale e di Alta Specializzazione Civico di Palermo andasse immune da censure organizzative, senza valorizzare la plurima violazione delle varie norme in tema di durata massima dell’orario di lavoro, poste a presidio della sicurezza del lavoratore e della qualità del servizio prestato in favore della utenza. Ciò in considerazione della circostanza pacifica che l’anestesista aveva prestato servizio ininterrottamente dalle ore 15:21 di sabato 11 agosto 2007, fino alle 07:00 della domenica del 12 agosto 2007. Inoltre, nello stesso mese di agosto 2007 aveva sostenuto più volte turni altrettanto prolungati.

Ed ancora, il secondo grado avrebbe erroneamente assolto l’Azienda Sanitaria da ogni mancanza organizzativa, sebbene la prestazione lavorativa notturna si sia protratta, nella specie, per quasi 16 ore consecutive e per di più in condizioni di continuo stress. Ergo, sempre secondo la tesi dei congiunti della vittima, la Corte di appello non avrebbe fatto corretta applicazione dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare nell’esercizio della propria attività tutte quelle misure che discendono norme specifiche di legge e di CCNL necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori.

Le lamentele sono fondate.

Il risarcimento del danno alla salute conseguente all’attività lavorativa

In tema di risarcimento del danno alla salute conseguente all’attività lavorativa, il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso. Ne consegue che, una volta provato il predetto nesso causale, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso”.

La Corte di appello ha errato nel ritenere insussistente la prova del nesso causale fra decesso e attività lavorativa nella misura in cui “i ricorrenti non hanno, dunque, fornito prova del nesso causale, né, in ogni caso, tale prova poteva essere agevolata sulla scorta dall’accertamento della dipendenza da causa di servizio fondata su un’indagine – quella del Comitato di Verifica – che si riferisce all’intero periodo di attività professionale del dottor R. protrattasi per quasi un trentennio presso l’azienda appellata, piuttosto che al più limitato turno di lavoro oggetto di analisi”.

Innanzitutto, “il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è uguale a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso” . Provato tale nesso causale è il datore di lavoro che deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso

L’inadempimento del datore di lavoro

Nel caso di specie, la violazione dell’art. 2087 c.c. risulta dalla mancata valutazione da parte della Corte di appello di collegare il decesso dell’anestesista al solo ultimo turno espletato, pretermettendo ogni valutazione circa l’incidenza causale di tutto l’atteggiarsi del rapporto come regola causale del più probabile che non.

Ed ancora, la Corte di Appello non accerta l’inadempimento (anzi, il non esatto adempimento) del datore di lavoro sulla base dell’erronea affermazione che il dipendente non avesse assolto all’onere probatorio del nesso causale, come invece accertato in sede di riconoscimento della causa di servizio, con conseguente mancata valutazione della condotta datoriale in termini di inadempimento dell’obbligo contrattuale di tutelare l’integrità fisica del lavoratore.

Cassa e rinvia alla Corte di Appello di Palermo in diversa composizione.

Avv. Emanuela Foligno

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