Il ragazzo si era presentato in ospedale lamentando forti dolori al braccio sinistro ma era stato rimandato a casa con una diagnosi di nevralgia

Con una condanna e una assoluzione si è concluso il processo di primo grado per la morte di un giovane salentino di 35 anni, deceduto per infarto nel febbraio del 2011, dopo essere stato dimesso dal pronto soccorso dell’Ospedale di Gallipoli dove si era recato nella notte per forti dolori al braccio sinistro.

Il ragazzo, che lavorava in una pizzeria, si era prima recato presso il locale presidio di guardia medica del Comune di Tuglie, in provincia di Lecce, dove il medico, diagnosticando una semplice nevralgia, gli aveva praticato una iniezione di antinfiammatorio. Successivamente, stante il perdurare del dolore, l’uomo era stato accompagnato dalla fidanzata e dalla sorella presso l’ospedale della città jonica dove, secondo quanto riportato nella denuncia presentata dai familiari, non avrebbe ricevuto alcuna assistenza, nonostante presentasse i sintomi tipici del principio d’infarto. I medici si sarebbero limitati a consigliargli di assumere degli antidolorifici e applicare sul braccio dolorante una borsa d’acqua calda, attribuendo anch’essi il dolore a una nevralgia cervicale con irradiazione al braccio. Ma dopo il rientro a casa le condizioni del 35enne erano ulteriormente peggiorate, tanto da richiedere l’intervento del 118; all’arrivo dell’ambulanza, tuttavia, il ragazzo era già morto e i sanitari non poterono fare altro che constatarne il decesso.

Convinti che la morte poteva e doveva essere evitata, i parenti presentavano denuncia dell’accaduto presso i carabinieri puntando il dito contro i medici che avevano visitato il loro caro nelle ultime ore di vita. La denuncia era stata quindi trasmessa per competenza al magistrato di turno, il sostituto procuratore della Repubblica di Lecce, che aveva aperto un fascicolo e aveva conferito al medico legale l’incarico di eseguire l’autopsia.

L’esame autoptico aveva evidenziato che il giovane sarebbe morto ‘aritmia ventricolare’ dovuta ad ‘occlusione trombotica recente del ramo coronarico discendente anteriore’. Le responsabilità mediche sarebbero consistite anzitutto in una scorretta diagnosi muscolo-scheletrica, ‘curata’ attraverso la somministrazione di antidolorifici e, soprattutto, nel non avere eseguito un tracciato elettrocardiografico e il dosaggio degli enzimi cardiaci. Dunque, ‘per negligenza, imperizia ed imprudenza’, i medici non avrebbero consentito una corretta diagnosi. Di qui la decisione del rinvio a giudizio.

Nelle scorse ore è arrivata dunque la sentenza del processo che vedeva imputati per omicidio colposo il medico in servizio presso la guardia medica e il medico del pronto soccorso del nosocomio gallipolino. Il primo è stato assolto per non aver commesso il fatto mentre il camice bianco del servizio di primo intervento è stato condannato a diciotto mesi, con pena sospesa in caso di pagamento da parte dell’imputato, entro sessanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, delle provvisionali in favore delle parti civili; nello specifico si tratta di una cifra pari a 150mila euro per il padre, e 50mila ciascuna per la madre, le due sorelle e la compagna.

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