Omicidio della madre e perizie psichiatriche discordanti

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La Corte di Cassazione ha annullato la condanna inflitta in appello a F.S. per l’omicidio della madre, avvenuto nel 2021, rilevando una carenza di motivazione nella valutazione delle perizie psichiatriche discordanti. Le diverse diagnosi sullo stato mentale dell’imputato imponevano un’analisi più approfondita da parte della Corte di assise di appello, che aveva riconosciuto un vizio parziale di mente, discostandosi dal giudizio assolutorio di primo grado (Corte di Cassazione, I penale, sentenza 2 maggio 2025, n. 16506).

L’omicidio della madre e la dinamica dei fatti

I fatti di reato, riguardano l’omicidio della madre di F.S., eseguito la mattina del 22 marzo 2021, tra le ore 6 e le ore 7, mediante asfissia meccanica, prodotta attraverso l’applicazione al volto della vittima di un cuscino. La pressione manuale esercitata determinava il soffocamento e la morte della madre, che si verificava nell’abitazione dei due soggetti, ove l’imputato coabitava, oltre che con la vittima, con i fratelli F.A. e F.So. (costituiti parti civili).

L’omicidio si verificava in conseguenza di uno stato di tensione emotiva esistente tra l’imputato e la madre, che traeva origine da un litigio verificatosi la sera precedente, causato del fatto che la vittima aveva paragonato il ricorrente al padre, che era divorziato dalla genitrice dal 2013 e rappresentava una figura di riferimento negativo per l’intero nucleo familiare.
Dopo avere commesso il matricidio, FS confessava al fratello di avere ucciso la madre e, dapprima, tentava di colpirlo alla testa con una pentola in un momento di rabbia e, successivamente, gli esternava propositi suicidari, che però non portava a termine.

Nel frattempo, alle ore 9.56, il dott. C.V. (psicologo che conosceva l’imputato), previamente informato, allertava telefonicamente il servizio del 112 di quanto era accaduto, consentendo ai Carabinieri della Compagnia di Ferrara di giungere presso l’abitazione e in breve tempo e di eseguire i rilievi tecnici sulla scena del crimine. Nel prosieguo, il PM disponeva una CTU medico-legale, il cui esito stabilivo che la causa della morte della povera donna era dovuta al suo soffocamento, prodotto dalla pressione manuale esercitata sul volto della vittima con un cuscino.

La vicenda giudiziaria

Il PM, inoltre, disponeva l’espletamento di una CTU genetico-forense, i cui esiti corroboravano quelli delle verifiche tanatologiche compiute dalla prima Consulente., confermando che la causa della morte era dovuta a un’asfissia meccanica.

Durante l’interrogatorio svolto dinanzi al PM, l’imputato ammetteva, senza riserve, di avere ucciso la madre, soffocandola con un cuscino, a causa di un litigio verificatosi la sera precedente, nei termini che si sono già esposti.

Nel giudizio di merito, veniva effettuato un primo accertamento psichiatrico sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato, disposto dal PM. Il Consulente riteneva che l’imputato, al momento del fatto, fosse affetto da un disturbo di personalità tale da scemare grandemente la sua capacità di volere e, in misura minore, la sua capacità d’intendere, che poteva comportare il riconoscimento di un vizio parziale di mente, rilevante ai sensi dell’art. 89 cod. pen.

Queste conclusioni venivano confermate dal CTP della parte civile il quale affermava che l’imputato aveva agito in condizioni di parziale infermità psichica, rilevanti ex art. 89 cod. pen., essendo un soggetto schizoide con tendenze ossessive compulsive.

A queste CTU seguiva quella disposta dal GIP del Tribunale di Ferrara. Il Perito riteneva l’imputato affetto da un disturbo delirante di tipo persecutorio ipocondriaco, collegato a un disturbo ossessivo compulsivo, che imponeva di ritenerlo, al momento del fatto, incapace di determinarsi volitivamente; precisava che in capo all’imputato, in termini nosografici non del tutto chiariti processualmente, un margine di autodeterminazione, incidente sulla capacità di intendere del ricorrente.

La capacità di intendere e di volere dell’imputato

Basandosi su tali multipli accertamenti peritali, la Corte di assise di Ferrara riteneva che nell’imputato, al momento della commissione del matricidio si era verificata un’assenza totale della capacità di volere e una significativa compromissione della capacità di intendere.

A conclusioni parzialmente diverse, invece, giungeva la Corte di assise di appello di Bologna, che si pronunciava ai soli effetti civili della sentenza di primo grado. Dopo avere ripercorso tutte le conclusioni della CTU svolte, senza il compimento di ulteriori verifiche psichiatriche sull’imputato riteneva che, al momento della commissione dell’omicidio della madre l’imputato fosse solo parzialmente incapace di intendere e di volere, con la conseguenza di ritenerlo meritevole dell’attenuante prevista dall’art. 89 cod. pen.

Uno dei Consulenti, difatti, aveva affermato che l’imputato era affetto da un disturbo delirante di tipo persecutorio ipocondriaco, collegato a un disturbo ossessivo-compulsivo, che incideva ma non escludeva la sua capacità di intendere e di volere, lasciandogli residuare un margine di autodeterminazione, che imponeva di riconoscergli il vizio parziale di mente e non già il vizio totale di mente riconosciutogli dalla Corte di assise di Ferrara.

L’interpretazione della Corte di Appello

Secondo la Corte di Bologna, tali conclusioni risultano essere conformi alla giurisprudenza secondo cui: “in tema di imputabilità, l’assenza della capacità di volere può assumere rilevanza autonoma e decisiva, valorizzabile agli effetti del giudizio ex arti. 85 e 88 cod. pen., anche in presenza di accertata capacità di intendere (e di comprendere il disvalore sociale della azione delittuosa), ove sussistano due essenziali e concorrenti condizioni: a) gli impulsi all’azione che l’agente percepisce e riconosce come riprovevole (in quanto dotato di capacità di intendere) siano di tale ampiezza e consistenza da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze. b) ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale, che deve appunto essere ritenuto idoneo ad alterare non l’intendere, ma il solo volere dell’autore della condotta illecita.
Ne deriva che l’esistenza di un impulso, o di uno stimolo all’azione illecita, non può essere di per sé considerata come causa da sola sufficiente a determinare un’azione incoerente con il sistema di valori di colui che la compia, essendo, invece, onere dell’interessato dimostrare il carattere cogente nel singolo caso dell’impulso stesso”.

Ragionando in tal senso, i Giudici di Bologna hanno ritenuto l’imputato affetto da un vizio parziale di mente, che imponeva ai soli effetti dell’impugnazione delle parti civili, il riconoscimento della sua colpevolezza per la morte della madre, S.A.P., con la conseguente condanna dell’imputato al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili, F.A. e F.So., da liquidarsi in separata sede e al riconoscimento di una provvisionale provvisoriamente esecutiva dell’importo di 50.000 euro in favore di ciascuna di tali parti.

Il giudizio della Corte di Cassazione

Sono corrette parte delle doglianze presentate dall’imputato all’attenzione della S.C. Innanzitutto la Cassazione rileva che la sentenza di primo grado e quella appellata, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano tra loro, formando un complesso argomentativo inscindibile. Con ciò, il Giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella di primo grado, deve soltanto rispondere in modo adeguato alle singole doglianze prospettate dall’appellante.

La Cassazione dà continuità ai principi secondo cui “laddove nel giudizio di secondo grado si sia determinata l’integrale riforma della sentenza impugnata, si deve fare riferimento in termini rigorosi al materiale sottoposto alla cognizione del Giudice di appello, tenendo conto delle acquisizioni dibattimentali e degli elementi probatori posti a fondamento di quel giudizio. In queste ipotesi, l’obbligo motivazionale del Giudice di appello assume connotazioni più stringenti rispetto al caso in cui la sentenza di appello si limiti a confermare la decisione impugnata.

Recentemente, le SS.UU. hanno ribadito che l’introduzione del canone al di là di ogni ragionevole dubbio ha guidato la giurisprudenza di legittimità, nel senso che per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di secondo grado non è sufficiente, in mancanza di elementi sopravvenuti, una diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in primo grado, ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, ma occorre invece una forza persuasiva superiore, tale da fare venire meno ogni ragionevole dubbio.

La Corte di assise di appello di Bologna, nel procedere alla riforma della sentenza di primo grado, che aveva assolto F.S. dall’omicidio della madre non ha dato esaustivo conto degli elementi che imponevano di rivalutare in peius la condizione di infermità psichica dell’imputato, a fronte dell’istruttoria processuale, incentrata su quattro verifiche psichiatriche sulla capacità di intendere e di volere, che si sono concluse con esiti disarmonici e non riconducibili a unità nosografica.

Le perizie psichiatriche discordanti

Si consideri, che nel giudizio di primo grado, veniva svolta una prima Consulenza, secondo cui l’imputato, nel momento in cui si determinava a uccidere la madre, era affetto da un vizio parziale di mente. Il CTP e una delle due parti civile confermava queste conclusioni, sia pure con alcune differenziazioni nosografiche. Invece, la Consulenza disposta dal GIP di Ferrara riteneva l’imputato affetto da un disturbo delirante di tipo persecutorio ipocondriaco, collegato a un disturbo ossessivo compulsivo, che imponeva di ritenerlo, al momento della commissione del matricidio, incapace di determinarsi volitivamente. Le due perizie psichiatriche erano discordanti.

Per affrontare il problema della capacità di intendere e di volere dell’imputato, conseguente al disturbo delirante di tipo persecutorio ipocondriaco, collegato a un disturbo ossessivo compulsivo, la Corte di assise di appello di Bologna avrebbe dovuto muovere dall’orientamento ermeneutico affermatosi in seno alle Sezioni Unite nell’ultimo ventennio, sul quale, tra l’altro, si incentrano le censure difensive prospettate.

Ciò che rileva sul piano dell’accertamento giurisdizionale non è stato di disagio mentale dell’individuo singolarmente inteso, che deve essere tale da incidere negativamente sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato, la quale, a sua volta, deve essere intesa come la libertà di autodeterminazione dell’agente, collegata eziologicamente alla condotta delittuosa oggetto di vaglio.

Tuttavia, nel giungere a tali conclusioni, la Corte di assise di appello di Bologna non enucleava gli elementi nosografici idonei a legittimare la formulazione di un giudizio di parziale capacità di intendere e di volere dell’imputato, in termini divergenti rispetto a quello che aveva portato alla sua assoluzione nel giudizio di primo grado sulla base delle stesse verifiche medico-psichiatrico.

Avv. Emanuela Foligno

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