Ostacola gli incontri del figlio con il padre, madre condannata (Cass. pen., sez. VI, dep. 30 agosto 2022, n. 32005).

Ostacola gli incontri del figlio con il padre: madre condannata.

Il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Treviso ha tratto a giudizio la madre per il reato previsto e punito dagli artt. 110,574 c.p. comma 1, perché  avrebbe sottratto e ritenuto contro la volontà del padre,  genitore esercente la responsabilità genitoriale, il figlio minore.

Il Tribunale di Treviso, con sentenza emessa in data 28 novembre 2019, all’esito del giudizio dibattimentale di primo grado, ha dichiarato la donna colpevole condannandola alla pena di un anno e otto mesi.

La Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto la pena a 1 anno e 6 mesi di reclusione.

La Corte di Cassazione ha confermato la reclusione della donna perché ostacola gli incontri del figlio con il padre.

La donna, accusata di avere ostacolato gli incontri del figlio con il padre in seguito al cambio di residenza su decisione unilaterale, ricorre in Cassazione, censurando, tra i vari motivi, la violazione dell’art. 574 c.p. per l’insussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato contestato. Secondo la ricorrente il delitto contestatogli «esige la volontà di sottrarre il minore alla sfera di controllo del genitore e non già meramente di rendere più difficoltoso l’esercizio della bigenitorialità».

Secondo gli Ermellini le doglianze della donna sono infondate.

La Corte di merito ha correttamente ritenuto integrato il delitto di cui all’art. 574 c.p. a fronte della prova di una sottrazione, intesa «dunque come interruzione significativa del legame tra minore e genitore e cioè della loro mutua relazione, che si realizza con qualsivoglia ostacolo che non abbia carattere e durata meramente simbolica e che impedisca la coltivazione di un rapporto stabile, continuativo e autonomo tra il figlio minore e uno dei suoi genitori».

Difatti, il reato in questione si configura quando «la condotta di un genitore, contro la volontà dell’altro» prevede la sottrazione a quest’ultimo del figlio per un periodo di tempo significativo, «impedendo l’altrui esercizio della potestà genitoriale e allontanando il minore dall’ambiente d’abituale dimora».

Inoltre, le disposizioni di cui all’art. 574 c.p. e all’art. 388 c.p. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) hanno portata e significato diversi. Infatti, «se l’agente non ottempera a particolari disposizioni del giudice civile – sulla quantità e durata delle visite consentite al genitore non affidatario, sulle modalità e condizioni in genere fissate nel provvedimento – deve configurarsi il delitto di mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice; se invece, la condotta di uno dei coniugi porta ad una globale sottrazione del minore alla vigilanza del coniuge affidatario, così da impedirgli non solo la funzione educativa ed i poteri insiti nell’affidamento, ma da rendergli impossibile quell’ufficio che gli è stato conferito dall’ordinamento nello stesso interesse del minore e della società, in tal caso ricorre il reato di cui all’art. 574 cit.» (Cass. n. 12950/1986).

La donna deduce l’inosservanza degli artt. 178, lett. b) e c), 552, lett. c), c.p.p., in quanto l’imputazione delineata dal decreto di citazione a giudizio sarebbe nulla, atteso che si limita a riprodurre la formulazione del codice penale, senza alcun riferimento alla condotta in concreto rimproverata all’imputata, rendendo in tal modo incerti i confini dell’accusa e recando pregiudizio al diritto di difesa.

La stessa ricorrente, tuttavia, non ha allegato alcun concreto ed effettivo pregiudizio per il proprio diritto di difesa, in quanto la condotta contestata, della madre che ostacola gli incontri del figlio con il padre, per come accertata nel corso dell’istruttoria dibattimentale e, dunque, nella costante dialettica delle parti, è incontroversa nei propri estremi fattuali, avendo ad oggetto la globale esautorazione della figura paterna.

Le censure sono infondate.

La Corte di appello nella sentenza impugnata non ha posto in essere alcuna modifica dell’addebito contestato alla madre che ostacola di incontri paterni, ma ha solo precisato e valutato circostanze di fatto già ampiamente presenti agli atti e, richiamate anche nella sentenza di primo grado, per dimostrare come fosse integrata la fattispecie di reato contestata.

Le altre censure sono finalizzate a contestare genericamente la valutazione delle dichiarazioni rese e l’utilizzazione da parte dei Giudici di merito delle dichiarazioni rese al Consulente tecnico, senza, peraltro, precisare quali siano state in concreto censurate, in quanto la consulenza fa riferimento anche ad accertamenti operati direttamente dallo stesso Consulente tecnico.

La sentenza di primo grado, che la Suprema Corte ritiene del tutto corretta, descrive la condotta accertata della donna come sottrazione totale del figlio alla vigilanza dell’altro genitore, impossibilitato ad esercitare la propria responsabilità genitoriale.

La Corte di Appello di Venezia, nella sentenza impugnata, in modo non dissimile, ha rilevato che “la madre ha dapprima impedito all’ex marito di intrattenere una relazione autonoma con il figlio, poi ha fisicamente trasferito il bambino a seicento chilometri di distanza contro la volontà dell’altro genitore; per anni il figlio è stato privato di una relazione proficua con il padre e questi, per converso, non potendo esercitare i propri diritti e adempiere ai propri doveri ha subito pure il danno della sospensione della responsabilità genitoriale”.

Il ricorso viene rigettato con condanna per l’imputata alla refusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili.

Avv. Emanuela Foligno

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