In caso di rettificazione del sesso, l’interessato ha diritto di scegliere il nuovo prenome da registrare all’anagrafe, non potendosi ammettere una mera conversione del nome precedente nel genere scaturente dalla rettificazione medesima

La vicenda

La Corte d’appello di Torino aveva accolto la domanda di rettificazione di sesso da maschile a femminile, proposta dal ricorrente, ordinando agli ufficiali dello stato civile le competenti modifiche anagrafiche conseguenti.

La domanda era stata già respinta dal giudice di primo grado, non essendo ancora completato il percorso di transizione da genere maschile a femminile nel richiedente.

Tale elemento era stato invece, ritenuto non rilevante dai giudici della corte piemontese, i quali avevano ritenuto sussistenti i presupposti per dar luogo alla rettificazione prevista dall’art. 1 L. 164/1982, non rappresentando presupposto imprescindibile il trattamento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali anatomici primari ed avendo accertato che omunque non corrispondevano più al sesso attribuito nell’atto di nascita i caratteri sessuali ed identitari attuali del ricorrente.

All’attribuzione del sesso femminile all’attore doveva, dunque, necessariamente conseguire anche l’attribuzione di un nuovo nome, corrispondente al sesso.

La Corte d’appello aveva tuttavia ritenuto di non accogliere la richiesta del ricorrente di attribuzione del nuove prenome «Al.», in quanto frutto di un “mero desiderio di carattere voluttuario” ed aveva, pertanto, ordinato che il nuovo nome nei registri anagrafici fosse quello derivante dalla mera femminilizzazione del precedente, ovvero «Al.».

Contro tale decisione l’interessato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando l’errore commesso dalla corte territoriale per aver imposto un mero automatismo di conversione del nome, peraltro, non sempre praticabile, ritenendo erroneamente che il richiedente non potesse dare alcuna indicazione in merito al prenome da imporre quale dato dello stato civile, una volta accolta la richiesta di rettificazione di sesso e dovendo, inoltre – a detta del ricorrente -, essere assicurato anche un diritto all’oblio, inteso quale diritto ad una netta cesura con la precedente identità consolidatasi.

Ebbene, la censura è stata accolta perché fondata (Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, ordinanza n. 3877/2020).

L’attribuzione del nuovo nome – hanno chiarito gli Ermellini – pur non essendo espressamente disciplinata dalla legge 164/1982, consegue necessariamente all’attribuzione di sesso differente, al fine di evitare una discrepanza inammissibile tra sesso e nome, come, peraltro si evince sia dall’art. 5 L. 164/1982 (“Le attestazioni… sono rilasciate con la sola indicazione del nuovo sesso e nome”), sia dalla normativa in materia di stato civile (art. 35 D.P.R. 3.11.2000 n. 396), che prevede che il nome di una persona deve corrispondere al sesso.

Il legislatore nazionale, con l’art.5 L. 164/1982, ha richiesto una corrispondenza assoluta tra sesso anatomico e nome, manifestando preferenza per l’interesse alla certezza nei rapporti giuridici rispetto all’interesse individuale alla coincidenza tra il sesso percepito e il nome indicato nei documenti di identità.

Il sopra citato art. 35 recita: «il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere composto da uno o da più elementi onomastici, anche separati, non superiori a tre. In quest’ultimo caso, tutti gli elementi del prenome dovranno essere riportati negli estratti e nei certificati rilasciati dall’ufficiale dello stato civile e dall’ufficiale di anagrafe».

Il diritto alla scelta del nuovo prenome

Per i giudici della Prima Sezione Civile della Cassazione, l’interpretazione data nel caso specifico dalla Corte di merito non era conforme al dato normativo, in quanto non è previsto da nessuna parte l’obbligo di trasposizione meccanica del nome originario nell’altro genere (vi sono, oltretutto, prenomi maschili non traducibili al femminile e viceversa ovvero prenomi che, a seconda del contesto linguistico in cui si pone l’interprete, possono essere percepiti come maschili o femminili, come rilevato dalla parte ricorrente, con conseguente incertezza dovuta ad una conversione spesso non univoca).

“Non emergono, pertanto, – ha aggiunto il Collegio – obiezioni al fatto che sia la stessa parte interessata, soggetto chiaramente adulto, se lo voglia, ad indicare il nuovo nome prescelto, quando non ostino disposizioni normative o diritti di terzi, attesa l’intima relazione esistente tra identità sessuale e segni distintivi della persona, quale il nome”. Peraltro, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 120/2001, ha chiaramente affermato che il nome inteso come il primo ed immediato segno distintivo, costituisce uno dei diritti inviolabili della persona protetti dalla Carta ex art. 2 Cost., cui si riconosce il carattere di clausola aperta, con conseguente possibilità di evincere, dalla lettura combinata dell’art. 6, comma 3, c.c. e degli artt. 2 e 22 Cost. , la natura di diritto soggettivo insopprimibile della persona.

Il riconoscimento del primario diritto alla identità sessuale, sotteso alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, rende conseguenziale la rettificazione del prenome, che non va necessariamente convertito nel genere scaturente dalla rettificazione, dovendo il giudice tener conto del nuovo prenome, indicato dalla persona, pur se del tutto diverso dal prenome precedente, ove tale indicazione sia legittima e conforme al nuovo stato.

Per queste ragioni, la corte ha accolto il ricorso e, cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha ordinato all’Ufficiale di Stato civile di rettificare l’atto di nascita del ricorrente, nel senso sopra indicato.

La redazione giuridica

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