La Suprema Corte chiarisce che il dovere di custodia si estende anche alle pertinenze e agli accessori della strada che non va intesa limitatamente alla carreggiata asfaltata (Cassazione Civile, Sez. III, n. 19610 del 09/07/2021)

La Corte d’Appello di Messina respingeva il gravame dei danneggiati nonché del Consorzio per le Autostrade Siciliane – in via incidentale – in relazione alla pronunzia Tribunale di Messina 15/5/2006, di rigetto della domanda di risarcimento dei danni rispettivamente subiti in conseguenza del sinistro stradale avvenuto sull’autostrada allorquando “a causa del manto stradale notevolmente usurato e viscido per la pioggia”, il danneggiato finiva fuori strada urtando contro la roccia lavica ai margini della carreggiata, “priva di idonea barriera di protezione”.

Ricorrono per Cassazione gli eredi del danneggiato.

In sintesi, i ricorrenti si dolgono dell’errata ricostruzione della dinamica del sinistro, della mancata valutazione dell’amnesia retrograda riscontrata al danneggiato al momento del ricovero, dell’erronea valutazione delle condizioni di usura del manto stradale, l’omesso esame di un fatto decisivo inerente le risultanze della CTU ambientale, violazione di legge in riferimento al vuoto normativo attinente le barriere di sicurezza, errata applicazione delle regole inerenti il caso fortuito.

Gli Ermellini trattano congiuntamente i motivi di ricorso, ritenendoli fondati.

Preliminarmente viene ribadita la responsabilità per cose in custodia a carico del proprietari o concessionari delle strade e delle autostrade, stante la relativa disponibilità e l’effettiva possibilità di controllo.

Conseguentemente, al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione gli enti proprietari (o i concessionari) delle strade sono tenuti a provvedere: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze; c) all’apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta.

Nel corso degli anni, inoltre, la giurisprudenza ha sottolineato come l’obbligo di prevenire e segnalare qualsiasi situazione di pericolo o di insidia riguarda non solo la sede stradale, ma anche la zona non asfaltata ai limiti della medesima, posta a livello tra i margini della carreggiata e i limiti della sede stradale (“banchina”).

La ragione risiede nel fatto che la banchina, o il margine della carreggiata, fa parte della struttura della strada, e la relativa utilizzabilità, anche per sole manovre, o brevi soste, comporta esigenze di sicurezza e prevenzione analoghe a quelle che valgono per la carreggiata, in quanto “in assenza di specifica segnalazione contraria, anch’essa, benché non pavimentata, per la sua apparenza esteriore suscita negli utenti affidamento di consistenza e sicura transitabilità, sicché non deve presentare insidie o trabocchetti, la cui sussistenza comporta pertanto la responsabilità della P.A. per i danni che ai medesimi ne siano derivati “.

Ciò significa che la custodia esercitata dal proprietario o gestore della strada non è quindi limitata alla sola carreggiata, ma si estende ai margini della carreggiata agli elementi accessori e pertinenze, anche inerti.

Seguendo tali principi delineati, la custodia si estende dunque anche alle cunette e alle scarpate laterali e alle eventuali barriere laterali di sicurezza con funzione di contenimento e protezione della sede stradale.

Ciò posto, la circostanza che l’adozione di specifiche misure di sicurezza non sia prevista da alcuna norma astrattamente riferibile ad una determinata strada comunque non esime la P.A. dal valutare se la medesima possa in concreto costituire un rischio per l’incolumità degli utenti.

Per tali ragioni è errato quanto affermato dalla Corte d’Appello laddove afferma che il custode risponde solo a titolo di colpa specifica per violazione di norme speciali.

Il principio governante tutti i casi di responsabilità oggettiva, invece, recita la presenza di responsabilità non solo nei casi di colpa specifica, ma anche nei casi di colpa generica per difetto di quella diligenza che la norma propriamente richiede.

Tali obblighi, come noto, discendono dal principio di neminem laedere proiettato dall’art. 2043 c.c.

Pertanto, il danneggiato che invoca il risarcimento conseguente a omessa o insufficiente manutenzione della cosa in custodia, o di suoi accessori e pertinenze, è tenuto a fornire la prova che in relazione alle circostanze del caso concreto, i danni subiti derivano dalla cosa.

Nel configurare la responsabilità oggettiva del custode, l’art. 2051 c.c., prevede, in deroga alla regola generale di cui al combinato disposto degli artt. 2043 e 2697 c.c., l’inversione dell’onere della prova, il custode potendo vincere tale presunzione e liberarsi dalla responsabilità solamente dando la prova del fortuito.

Ebbene, tutti tali pacifici principi sono stati disattesi dalla Corte d’Appello di Messina.

Il danneggiato percorreva l’autostrada A18 quando, giunto intorno alle ore 11,50, dopo essere uscito da una curva sinistrorsa ad ampio raggio perdeva il controllo della vettura sul manto stradale bagnato per la pioggia in atto”, mentre marciava “sulla corsia di sorpasso”. Postasi “quasi perpendicolarmente all’asse stradale”, l’auto “impattava con il terrapieno che delimitava a destra la carreggiata”, andando “a collidere in modo violento con il cordolo posto oltre la corsia di emergenza all’altezza del km 68+520”, e proiettandosi quindi “sulla scarpata ascendente”, colpiva “delle rocce laviche, toccava il piano viabile…, urtava per una seconda volta l’ammasso lavico tanto da spaccare una grossa pietra che ricadeva sulla cunetta e finiva con l’arrestarsi capovolta tra la corsia di marcia e quella d’emergenza.

Risulta accertato dal Giudice di merito che la perdita di controllo della vettura sia “dipesa dall’usura del manto stradale”.

Ergo, i primi 3 motivi di ricorso vengono rigettati avendo la Corte posto correttamente a fondamento del proprio giudizio l’art. 2051 c.c., ha escluso che “la presenza delle rocce laviche integrasse una situazione di oggettiva pericolosità tale da imporre la collocazione di barriere”, ritenendo non esservi dubbio “che la scarpata ascendente, pur se di natura rocciosa, non dovesse proteggersi con apposite barriere, essendo evidentemente idonea in sé a svolgere la funzione di contenimento dei veicoli in svio”, e ravvisando la relativa “esistenza… connaturata all’ambiente locale”, nonché “assimilabili agli “ostacoli fissi isolati” esemplificati dalla norma” di cui all'”allegato 1 al D.M. n. 223 del 1992″ i “massi sporgenti dal relativo profilo ma comunque collocati in posizione rialzata rispetto alla sede stradale”.

Riguardo, invece, le barriere di sicurezza, il Giudice di merito ha osservato che “il tratto della A 18 comprendente il Km. 68-500 era entrato in esercizio nel 1971”, in “epoca in cui vi era ancora un vuoto normativo per ciò che atteneva le barriere di sicurezza”, essendo solo “in anni successivi” state “emanate le varie disposizioni richiamate dal C.T.U. nel suo elaborato, dalle norme tecniche CNR 28.7.1980 n. 78, alla circolare LL.PP. 11.7.1987 n. 2337 fino al già citato D.M. n. 233 del 1992, ed alla Circolare LL.PP 9.6.1995 n. 2595”, introducenti le “prescrizioni via via più dettagliate e rigorose sul piano tecnico a proposito delle barriere stradali in acciaio, valevoli anche per i rimpiazzi di barriere esistenti nonché – come previsto dal D.M. n. 233 del 1992, art. 2 – “in occasione dell’adeguamento di tratti significativi di tronchi stradali esistenti””.

Il ragionamento è errato.

La Corte di merito ha omesso di indicare su quali basi abbia ravvisato la condotta mantenuta dal defunto danneggiato quale causa esclusiva del sinistro in argomento, e come, tale condotta, sia stata idonea ad interrompere il nesso di causalità tra la cosa e il danno.

Il Giudice ha affermato che la causazione del sinistro fosse ascrivibile alla velocità di marcia del veicolo, ma ha trascurato di considerare la resistenza che una barriera protettiva di sicurezza avrebbe potuto opporre all’urto da parte del mezzo e di vagliare quali conseguenze – differenti o meno – ne sarebbero in tal caso scaturite.

In buona sostanza, andava accertato se la presenza della roccia lavica ai margini della carreggiata richiedesse l’apprestamento di soluzioni idonee ad evitare la fuoriuscita di un veicolo, e scientificamente valutato quali sarebbero state le conseguenze dell’urto contro una barriera protettiva, anche in caso di fuoriuscita ciononostante verificatasi.

Vengono, dunque accolti i i motivi 4, 5 e 6 , e la sentenza impugnata viene cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Messina in diversa composizione.

La decisione di legittimità qui a commento si presenta molto interessante, laddove specifica a chiare lettere che la dovuta interpretazione in senso “ampio” della definizione “strada” risiede nel fatto che la banchina, o il margine della carreggiata, fa parte della struttura della strada stessa, e il fatto che possa essere comunque utilizzata dagli utenti comporta esigenze di sicurezza e prevenzione identiche a quelle che valgono per la carreggiata.

Quindi, la custodia esercitata dal proprietario -o gestore della strada- non è limitata alla sola “carreggiata”, ma si estende ai margini, agli elementi accessori e pertinenze, anche inerti .

Avv. Emanuela Foligno

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