Divulgazione di selfie pornografici: applicabile la pena più grave prevista dall’art. 600-ter c.p. La Corte di Cassazione ha condiviso l’orientamento delle Sezioni Unite del 2018 secondo cui, ai fini dell’applicazione della predetta sanzione, è irrilevante la circostanza che il materiale pornografico sia autoprodotto dalla persona offesa

A seguito della denuncia del padre della persona offesa in ordine alla circolazione di selfie pornografici della figlia, i Carabinieri avevano sentito l’imputato ed altri soggetti che avevano ricevuto le foto, e sequestrato i loro cellulari.

Nel corso dell’interrogatorio, l’imputato, studente universitario, aveva ammesso che, durante una gita a Palinuro nel periodo pasquale, dopo aver scattato delle foto di gruppo usando il telefono della persona offesa, all’insaputa di questa, aveva trattenuto l’apparecchio e, rinvenuti nella galleria i selfie pornografici, li aveva fotografati, prima di restituirle il cellulare; dopo qualche giorno, aveva inviato le foto dei selfie ad un comune amico, il quale, nel novembre 2015, le aveva successivamente divulgate. L’amico aveva confermato la versione dei fatti dell’imputato, ammettendo sia di aver ricevuto le due foto sia di averle inviate ad altro gruppo di whatsapp composto da circa venti persone che, probabilmente, a loro volta, le avevano divulgate su altre chat. Sentiti gli altri giovani, tutti avevano indicato il nome della persona da cui avevano ricevuto le due foto, alcuni avevano ammesso di averle successivamente inoltrate ad altro gruppo, altri di averle cancellate.

Il Pubblico ministero, pur avendo inviato l’avviso di conclusione delle indagini a tutti coloro i quali avevano avuto un ruolo attivo nella vicenda, si era determinato all’esercizio dell’azione penale solo nei confronti del prevenuto.

La pronuncia di primo grado

Il GUP del Tribunale di Salerno lo aveva, tuttavia, assolto dai reati di cui all’art. 646 c.p. e art. 600-ter c.p., comma 4, con la formula “perché il fatto non sussiste”, osservando che quest’ultimo, piuttosto che divulgare o diffondere le due foto della ragazza ad una serie indeterminata di utenti – come contestato dal Pubblico ministero -, si era limitato a veicolarle ad un unico soggetto che aveva poi dato corso alla successiva e frenetica divulgazione in rete, sicché, premessa l’astratta ipotizzabilità del reato di cui all’art. 600-ter c.p., comma 4, piuttosto che quella del comma 3, come contestato dall’accusa, era da escludersi ogni responsabilità.

Ed invero, il reato dell’art. 600-ter c.p. presupponeva, per ciascuna delle ipotesi di reato contemplate dalla norma incriminatrice, che il produttore del materiale pedopornografico fosse una persona diversa dal minore raffigurato.

Nella specie, vi era stata la duplicazione, mediante copiatura, del materiale pedopornografico autoprodotto dalla ragazza, ipotesi non contemplata dalla norma incriminatrice e non giustificabile, trattandosi di un’interpretazione in malam partem.

Il Giudice aveva poi escluso il reato di appropriazione indebita, perché i selfie pornografici non potevano essere oggetto di appropriazione, essendo cose mobili solo le entità materiali come i supporti cartacei su cui le immagini erano state eventualmente stampate e perché, essendo rimasta la ragazza nella disponibilità degli originali, non era stata spogliata di un suo bene.

Proposto appello, nel marzo del 2019 la corte distrettuale di Salerno, in riforma della sentenza di primo grado, condannava l’imputato alla pena di 1 mese e 20 giorni di reclusione, nonché Euro 2.000,00 di multa, oltre al risarcimento del danno alla parte civile.

Per i Giudici dell’appello la peculiarità del caso risiedeva nel fatto che la minore aveva sì autoprodotto il materiale pedopornografico, ma la condotta dell’imputato che aveva fotografato e divulgato (rectius: ceduto) le foto della stessa, poteva considerarsi pienamente integrante il reato, vista la possibilità, insita nel mezzo telematico prescelto, di accesso ad un numero indeterminato di destinatari

La questione giuridica

Pacifico il fatto storico, i giudici della Suprema Corte (Terza Sezione Penale, n. 552/2020) si sono interrogati in ordine alla interpretazione giuridica dell’art. 600-ter c.p., comma 4, in rapporto all’art. 600-ter c.p., comma 1: ovvero se la condotta di chi entri abusivamente nella disponibilità di foto pornografiche autoprodotte dal minore, presenti nel suo telefono cellulare, e ne effettui la riproduzione fotografica e le offra o le ceda successivamente a terzi senza autorizzazione, integri o meno l’ipotesi delittuosa per cui era intervenuta la condanna.

Il punto di partenza del ragionamento seguito dalla Cassazione è stata la sentenza n. 11675 del 18/02/2016 (poi confermata l’anno successivo con la sentenza n. 34357 del 11/04/2017) che ha affermato il seguente principio di diritto “ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 600-ter c.p., è necessario che il produttore del materiale sia persona diversa dal minore raffigurato, in quanto, nel diverso caso dell’autoproduzione difetterebbe l’elemento costitutivo dell’utilizzo del minore da parte di un soggetto terzo”.

In altre parole perché possa dirsi integrato il reato di pornografia minorile è necessario che “l’autore della condotta sia soggetto altro e diverso rispetto al minore da lui (prima sfruttato, oggi) utilizzato, indipendentemente dal fine – di lucro o meno – e dall’eventuale consenso, del tutto irrilevante, da parte del minore stesso all’altrui produzione del materiale o alla realizzazione degli spettacoli pornografici; alterità e diversità che, quindi, non possono ravvisarsi qualora il materiale sia realizzato dallo stesso minore – in modo autonomo, consapevole, non indotto o costretto”.

Il nuovo orientamento della Cassazione

Nel 2018 le Sezioni Unite della Cassazione hanno, poi, cambiato orientamento, sostenendo che “l’eteroproduzione da parte di terzi del materiale pedopornografico non costituisce requisito stringente ed indefettibile di tutte le condotte previste dalla norma penale. Tale interpretazione non integra un’applicazione in malam partem dell’art. 600-ter c.p., giacché è in linea con la ratio della norma stessa che tutela la dignità personale del minore nel senso più ampio possibile”.

Ebbene, alla luce di quanto affermato e della particolarità delle vicenda in esame i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto di dover condividere quest’ultimo orientamento e pertanto, hanno annullato senza rinvio la decisione impugnata, rideterminando la pena a carico dell’imputato, in un mese e 16 giorni di reclusione ed Euro 1.333,00 di multa.

La redazione giuridica

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