La Corte di Appello di Roma, in riforma della decisione del Tribunale di Roma assunta in data 12 ottobre 2021, ha assolto l’indagato dal reato di lesioni stradali per non avere commesso il fatto e dal reato di mancata prestazione di assistenza a seguito di incidente stradale perché il fatto non sussiste. La Cassazione conferma (Corte di Cassazione, quarta penale, sentenza 22 aprile 2025, n. 15692).
Tutto inizia dalla denuncia querela presentata da M.F. e da N.R., le quali rappresentavano, in relazione al sinistro stradale loro occorso in Roma in data 16/09/2016, mentre erano rispettivamente alla guida (M.) e passeggera (N.) della Fiat Punto di proprietà della prima, di essere state urtate dal veicolo Audi Q5 di proprietà di R.D. In tale frangente avevano avuto modo di constatare che il conducente del veicolo, dopo essersi brevemente trattenuto sul luogo del sinistro, se ne era poi allontanato in compagnia di altro passeggero del veicolo da esso condotto, mentre era rimasto a svolgere le attività materiali di constatazione concordata del sinistro l’altro passeggero del veicolo Audi, S.S., il quale peraltro aveva riconosciuto di essere stato alla guida del mezzo e di essere intestatario della polizza assicurativa del mezzo incidentato.
Ricostruzione della dinamica e mancata prestazione di assistenza
A seguito degli atti di indagine gli imputati erano tratti a giudizio per rispondere, R.D., dei delitti di cui agli artt. 590 bis cod. pen. e 189, comma 7 Codice della Strada, mentre lo S., che aveva falsamente dichiarato di essere il conducente del veicolo e quindi autoaccusandosi di essere il responsabile della causazione del sinistro, come peraltro dichiarato nel modulo di constatazione del sinistro da questi sottoscritto, del reato di favoreggiamento.
La Corte di appello ha posto in dubbio l’attendibilità delle dichiaranti (due persone offese e un’altra passeggera del veicolo condotto dalla M.) sul fatto che fosse stato il R., piuttosto che lo S., alla guida del veicolo AUDI ed escludevano sotto diverso profilo che si fosse concretizzata l’ipotesi di cui all’art. 189 comma 7 Codice della Strada, in quanto le giovani, che sul momento erano risultate impaurite, traumatizzate ma non avevano manifestato la necessità di una immediata assistenza, che infatti avevano rifiutato, si erano trattenute per lungo tempo sul luogo del sinistro, tanto da procedere alla compilazione della constatazione dell’incidente stradale insieme allo S., tenuto altresì conto del fatto che dal materiale fotografico acquisito era emersa la presenza del R. nei pressi degli autoveicoli, che erano stati spostati, anche in un momento successivo alla collisione.
Esclusione della mancata prestazione di assistenza
In sintesi il Giudice di appello riteneva che la prova della responsabilità del R. nella causazione del sinistro con feriti era incerta e contraddittoria, mentre non sussisteva la mancata prestazione di assistenza atteso che era stata la stessa M. a rifiutare l’invito a chiamare il servizio di autoambulanza.
La difesa delle due danneggiate propone ricorso per Cassazione che dichiara infondate tutte le doglianze.
Interesse delle parti civili e favoreggiamento
La Cassazione rileva che il reato di favoreggiamento personale offende il bene giuridico del corretto esercizio e del buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia e non assume connotazioni plurioffensive, quindi sarebbe stato onere delle ricorrenti parti civili evidenziare l’interesse a proporre impugnazione avverso una statuizione assolutoria che non è in grado di danneggiare, neppure indirettamente, gli interessi civili di natura risarcitoria introdotti nel procedimento.
Ad ogni modo, le doglianze proposte non criticano le argomentazioni poste a base della decisione impugnata e risultano prive della enunciazione delle ragioni di diritto giustificanti il ricorso e dei correlati congrui riferimenti alla motivazione dell’atto impugnato.
Motivazione e limiti della rivalutazione dei fatti
Le altre doglianze proposte in realtà vorrebbero condurre a una inammissibile rivalutazione dei fatti. A tale proposito viene ribadito il principio concernente l’onere motivazionale richiesto che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna (anche agli effetti civili) del primo Giudice.
Sul punto, le Sezioni Unite hanno espressamente chiarito, in primo luogo, che “il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva”…
Motivazione rafforzata e riforma della sentenza
“Invero, se per la riforma in appello di una decisione assolutoria non è sufficiente una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto (la c.d. motivazione rafforzata), nel caso inverso tale diversa valutazione è del tutto sufficiente giacché, se la condanna deve presupporre la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza.”
Valutazione del materiale probatorio e assoluzione
Detto in altri termini, il Giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, deve confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo grado (e quello eventualmente acquisito in seguito), per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte.
Questo significa che, come nel caso qui discusso, se al Giudice di appello non è richiesta una motivazione rafforzata, bensì, come si afferma nel principio di diritto statuito dalle SS.UU. sopra menzionate “... una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado”, si deve ritenere che la Corte d’appello abbia correttamente adempiuto ai propri oneri.
Decisione finale della Corte d’appello e inammissibilità del ricorso
La Corte d’appello, infatti, ha illustrato dettagliatamente la ragione delle difformi conclusioni raggiunte, procedendo ad una puntuale disamina della pronuncia di primo grado e dei motivi di appello e, quindi, ad una dettagliata ricostruzione dei fatti e, con argomentazioni non manifestamente illogiche, arrivando a ritenere provato che R. fosse alla guida dell’autovettura Audi che il 16.9.2016 andò a urtare la Fiat Punto condotta da M.F. e con a bordo N.R., essendo diversamente emerso che alla guida dell’Audi si trovava lo S.; di qui l’assoluzione del R. dai reati addebitatigli, con formula per non avere commesso il fatto, e quella dello S. (responsabile del sinistro e delle lesioni cagionate alle persone offese) dal delitto di favoreggiamento, in alcun modo provato.
In conclusione, i ricorsi devono vengono dichiarati inammissibili con la conseguente condanna delle parti ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Avv. Emanuela Foligno