Il comportamento fuori luogo del dipendente maleducato non è una giusta causa di licenziamento

Il licenziamento del dipendente maleducato è illegittimo, lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18418 del 20 settembre 2016.

Il caso di cui si è occupata la Corte riguardava l’impugnazione del licenziamento per giusta causa (art. 18, legge n. 300 del 1970). La giusta causa in questione riguardava il brutto carattere del lavoratore, considerato un dipendente maleducato in quanto litigioso e offensivo nei riguardi degli altri colleghi.

Già in primo grado, però, il Tribunale di Bergamo aveva dato ragione al lavoratore in quanto non riteneva che non sussistesse il requisito della giusta causa di licenziamento. La società ha quindi presentato ricorso, evidenziando come le testimonianze raccolte avessero “confermato un atteggiamento del lavoratore litigioso e offensivo nei confronti dei colleghi che avrebbe dovuto provvedere a formare nelle mansioni”.

Inoltre, la società datrice di lavoro evidenziava come il licenziamento fosse stato motivato principalmente “dal persistente rifiuto da parte del lavoratore di valutare le proposte formulate dalla società per mantenere in vita il rapporto di lavoro, che avevano, viceversa, portato il lavoratore addirittura ad accusare l’azienda di demansionamento e mobbing”. Pertanto, anche a seguito di tali accuse, “il rapporto fiduciario con il lavoratore si era definitivamente spezzato e pertanto il licenziamento era divenuto ineludibile”.

La Corte d’appello di Brescia, tuttavia, ha continuato a dare ragione al dipendente e confermato la sentenza di primo grado, salva la rideterminazione delle somme dovuto a titolo di risarcimento del danno.

La società condannata si è quindi rivolta in Cassazione, ma nuovamente ha visto rigettato il proprio ricorso.

Secondo la Corte, infatti, i giudici di appello avevano “accertato che le contestazioni mosse al lavoratore si sostanziavano in modi pretesamente maleducati nei rapporti con il personale che egli aveva il compito di formare; nel rifiuto del lavoratore di procedere alla negoziazione del superminimo; nella doglianza, rivolta all’azienda, di essere stato demansionato”.

La Corte d’appello aveva accertato, altresì, la “non illiceità dei fatti addebitati”, con la conseguenza che i medesimi non potevano essere posti alla base del licenziamento.

In sostanza, poiché i comportamenti addebitati dal lavoratore non erano illeciti, non si poteva ritenere che i medesimi integrassero la “giusta causa” che legittima il licenziamento, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970.

 

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