Assolto il cliente che trattiene per sé le somme liquidate a titolo di spese legali

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difensore d'ufficio

La condotta della parte vincitrice di una causa civile che rifiuti di consegnare al proprio avvocato la somma liquidata in proprio favore, a titolo di refusione delle spese legali, non integra il reato di appropriazione indebita, trattandosi di mero illecito civile

La vicenda

In primo grado e in appello l’imputato era stato dichiarato colpevole e, pertanto, condannato alla pena ritenuta di giustizia, del reato di appropriazione indebita ai danni del suo legale di fiducia, essendosi impossessato di una somma di denaro liquidata dall’assicurazione e riconducibile alle spese legali sostenute dal predetto professionista.

Contro la sentenza di condanna ricorreva per Cassazione il difensore dell’imputato, denunciando la violazione di legge nella configurazione del reato contestato.

Ed invero, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, le somme liquidate da un’assicurazione a favore del danneggiato sono di proprietà di quest’ultimo in tutte le voci, ivi compresa quella relativa alle spese legali, con la conseguenza che il mancato versamento dell’onorario al patrocinatore costituisce solo un illecito civile. Tanto è vero che, nel caso di liquidazione del danno da un’assicurazione ad un danneggiato, il difensore avrebbe azione solo nei confronti del clienti e non certo dell’assicurazione.

Ebbene, i giudici della Seconda Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 27829/2019) hanno accolto il ricorso perché fondato.

L’appropriazione indebita

È noto il principio, più volte affermato in giurisprudenza, secondo cui «non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta della parte vincitrice di una causa civile che trattenga la somma liquidata in proprio favore dal giudice civile a titolo di refusione delle spese legali, rifiutando di consegnarla al proprio avvocato che la reclami come propria».

In punto di diritto, i requisiti giuridici perché possa ritenersi configurabile il reato di cui all’art. 646 c.p., sono: a) l’appartenenza dei beni oggetti di appropriazione ad un terzo in virtù di un titolo giuridico; b) il possesso legittimo dei suddetti beni da parte del terzo; b) il possesso legittimo dei suddetti beni da parte del terzo; c) la volontà di interversione del possesso, la qual cosa si verifica quando il possessore effettua e rende esplicita al proprietario del bene la propria volontà di non restituire più il bene del quale ha il possesso; d)l’ingiusto possesso.

La ratio dell’art. 646 c.p. è infatti quella di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa.

Pertanto, quanto al caso in esame, l’indagine che il giudice di merito avrebbe dovuto svolgere era la seguente: a) verificare se la somma liquidata dal giudice in favore del cliente fosse o meno di proprietà dell’avvocato; b) se il primo la possedeva in virtù di qualche legittimo titolo di possesso e, quindi, se effettuò l’interversione.

La risposta ai suddetti quesiti – osservano gli Ermellini – discende dalla disamina del rapporto che lega il cliente al proprio difensore.

È indiscusso che il rapporto ha alla base un mandato professionale a seguito del quale il professionista ha il diritto di pretendere il pagamento della prestazione.

Il pagamento della suddetta prestazione costituisce, quindi, a carico del cliente, un obbligo che discende dall’interno rapporto di mandato essendo regolamentato dalle pattuizioni che le parti hanno stabilito in ordine al quantum ed alle modalità.

Nell’ipotesi di una causa civile, le modalità con le quali il professionista può farsi pagare sono due: 1) direttamente dal cliente ed indipendentemente dalla liquidazione che il giudice effettua in sentenza; 2) direttamente dalla parte soccombente: è l’ipotesi espressamente prevista dall’art. 93 c.p.c., che disciplina la fattispecie, appunto, della distrazione delle spese.

Nel caso in esame, era evidente che la somma controversa fosse stata liquidata in favore non dell’avvocato ma direttamente del suo cliente in quanto parte vincitrice a titolo di spese. È chiaro, pertanto, che quella somma fosse di sua esclusiva proprietà e perciò egli fosse libero di darne la destinazione che più gli aggradava pur essendo tenuto al pagamento della parcella dell’avvocato.

«Quest’ultimo, quindi, non poteva su di essa accampare alcun diritto, potendo solo richiedere la somma ritenuta congrua a titolo di parcella per l’opera professionale svolta, direttamente nei confronti del proprio cliente, somma che avrebbe potuto essere, in ipotesi, sia minore che superiore a quella liquidata dal giudice».

In definitiva, la questione rilevava soltanto dal punto di vista civilistico e non consentiva di ravvisare nei fatti il reato di cui all’art. 646 c.p.

La sentenza è stata perciò annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

La redazione giuridica

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