Consulenza legale: le precisazioni della Corte di Cassazione

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Ulteriori chiarimenti giungono dalla Cassazione in merito alla consulenza legale e la legittimità del recesso dell’ente regionale dal contratto con l’avvocato

La Corte di Cassazione, seconda sezione civile, nella sentenza n. 25668/2018 ha fatto il punto in merito alla legittimità del recesso dalla consulenza legale.

Secondo gli Ermellini, infatti, a un ente non è impedito di recedere unilateralmente dal contratto con il professionista. E questo anche laddove sia previsto un termine di durata del rapporto di consulenza legale.

Non solo. L’eventuale rinuncia al recesso “ad nutum” deve essere prevista esplicitamente ed emergere in modo chiaro dal regolamento negoziale.

La vicenda

Nel caso di specie, gli Ermellini hanno respinto il ricorso di un avvocato, legato a un ente regionale (l’ARPA) da un contratto di consulenza legale dal quale l’ente aveva receduto.

Il professionista aveva deciso di agire nei confronti dell’ente chiedendo che ne fosse accertato l’inadempimento contrattuale, con condanna al risarcimento dei danni.

In particolare, secondo il professionista, l’esistenza di un termine di scadenza temporale avrebbe reso blindato il suo contratto di consulenza legale con l’ente fino alla suddetta scadenza.

Al contrario, un recesso anticipato avrebbe determinato la condanna al mancato guadagno.

Ebbene, secondo i giudici di merito, , sussisteva una giusta causa oggettiva di risoluzione del rapporto e nessun risarcimento doveva essere corrisposto.

Ciò in virtù del fatto che prestazioni professionali svolte erano state già saldate e non rimanevano “sospesi”.

Ma non è tutto.

Secondo la Corte d’Appello il rapporto andava qualificato come contratto d’opera.

Pertanto, il recesso era da ritenersi legittimo per il venir meno dell’intuitus personae e per il sopravvenire dell’impossibilità sopravvenuta.

Questa impossibilità, inoltre, andava ricollegata a una legge regionale sopravvenuta che imponeva all’ente di avvalersi dell’avvocatura regionale.

Gli Ermellini hanno ritenuto però non condivisibile la tesi di parte ricorrente secondo cui l’inserimento in contratto di un termine di durata comporterebbe automaticamente la rinuncia alla facoltà di recesso.

Su tale questione esistono però differenti orientamenti.

Quello che merita condivisione è quello in base al quale il termine vale ad assicurare al cliente che il prestatore d’opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti. Inoltre, si è anche evidenziata la diversità strutturale e funzionale tra termine finale di efficacia del contratto e recesso fondato sulla fiduciarietà del contratto.

Secondo gli Ermellini, inoltre, non è fondato nemmeno addurre a favore della tesi di parte ricorrente l’applicazione analogica della disposizione di cui all’art. 1569 c.c. in tema di somministrazione.

Questo in virtù del fatto che non si è in presenza di un vuoto normativo, ma solo di una differente regolamentazione codicistica del recesso.

Dunque, in merito ai rapporti professionali di rilievo, la rinuncia al recesso deve esprimersi contrattualmente.

Non è dunque consentita un’espansione per implicito della clausola di durata, perché penalizzante per il cliente.

La Cassazione ha quindi confermato l’orientamento (cfr. Cass. n. 469/2016), secondo cui in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso “ad nutum” previsto, a favore del cliente, dal primo comma dell’art. 2237 del codice civile.

In conclusione, solo l’esistenza di uno specifico contenuto del regolamento negoziale, potrebbe giustificare un diverso esito.

 

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